Da giorni, da voci molto diverse ma autorevoli, si eleva il lamento per la debolezza dei partiti politici. È un lamento dominato quasi sempre da una vena nostalgica. Difficile trovare un qualche approfondimento sulle ragioni della loro crisi. Non si va al di là di qualche riflessione (pure importante) su Tangentopoli e quindi il loro finanziamento. Mentre l’impatto con la società della comunicazione (prima la tv) dell’autocomunicazione di massa (poi la rete e i social) è tutto ancora focalizzato sulla discesa in campo di Re Media, Silvio Berlusconi. Non si accende ancora una riflessione su quale dovrebbe o potrebbe essere la forma di partito adatta alle condizioni materiali della nostra realtà quotidiana. Forse questa riflessione potrebbe trovare ospitalità proprio qui su Il Riformista prendendo spunto da due interventi di questi giorni, quello di Tommaso Nannicini su il Foglio e la risposta che gli ha dato Luigi Marattin.

A me pare che Nannicini, riferendosi al Pd, concentri la sua attenzione su un punto chiave: un partito politico per essere rappresentativo va diretto ma non può essere dominato dalla “maggioranza” che è sempre provvisoria e temporanea. A suo parere la minoranza riformista, proprio per il bene del Pd stesso, dovrebbe essere riconosciuta e legittimata. Però i riformisti dovrebbe farsi sentire. “Ci siamo già scusati abbastanza”. Luigi Marattin gli risponde dicendogli che “nel Pd di oggi non vi potrà essere nessuno spazio per un approccio riformista” per una questione diciamo di cultura politica se non di ideologia. “Non si può convivere in uno stesso partito”.

Poi Marattin fa riferimento ad aspetti della vita interna e alla questione cruciale: la selezione dei candidati e lascia intendere che la minoranza viene indotta, proprio dal sistema di potere accentrato nelle mani del leader vincitore, a concentrarsi sulla negoziazione delle candidature piuttosto che sul dibattito politico culturale. Si potrebbe obiettare a Luigi Marattin che l’area (perché non mi pare sia definibile con la parola organizzazione) nella quale invita Nannicini a entrare in questi anni non ha dato vita a esperienze molto diverse dal Pd se non per dimensione e storia: chi dissente se ne va, i candidati li sceglie il leader.

Quindi la vita, la realizzazione o se si vuole la carriera di un politico dipende essenzialmente da quel rapporto e basta. È qui il punto da approfondire perché mi pare fondativo: un’organizzazione politica deve essere fatta da maggioranze e minoranze che competono. Quindi devono esserci regole certe, note, rispettate e consolidate nel tempo e con l’esperienza pratica. Non possono essere cambiate strumentalmente dal gruppo vincente o che si ritiene tale. Anche nei partiti il punto essenziale è fare della diversità una risorsa.

L’attenzione va posta sulla funzione che il partito deve svolgere nel nostro sistema di democrazia rappresentativa. Cioè: reclutamento, selezione e valutazione, sostegno elettorale dei candidati. E non si dica che in questo non c’entrano la cultura politica e i programmi. Va superata l’idea di partiti che mimano se non si installano nelle istituzioni e nello Stato. Va affermata l’idea dei partiti come cardine tra società e istituzioni, elemento essenziale per l’efficace funzionamento della “rappresentanza”. Per questo poi c’è un legame ineludibile tra forma dei partiti e regole della competizione elettorale. Non si può discutere dell’uno senza affrontare l’altro.

Mario Rodriguez

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