La riflessione
Pannella e l’attualità di una lontana intuizione, l’addio alle logiche locali e il cambio di sistema elettorale. Le ragioni comuni tornino al centro
Caro direttore,
ho apprezzato l’editoriale di Giuseppe Benedetto ospitato ieri sul suo giornale. Il suo richiamo alla mossa del cavallo di Marco Pannella nel 1980, quando decise di non impegnare più il Partito radicale nelle competizioni locali, coglie nel segno. Perché, come egli scrive, “un partito d’opinione, per sua natura, non può e non deve adattarsi alle logiche locali, spesso nocive” dove il consenso è determinato da fattori transeunti e da interessi particolaristici. Nel nostro paese culture e forze liberaldemocratiche esistono. Oggi sono disperse, divise, frammentate, anche per il narcisismo distruttivo delle loro personalità più di spicco. Eppure, come osserva il presidente della Fondazione Einaudi, sulla carta non dovrebbe essere difficile unire le forze con un patto elettorale caratterizzato da obiettivi chiari e precisi: una lotta per l’introduzione del nucleare nel mix energetico; una modifica del Rosatellum in senso pienamente proporzionalistico (senza la quale un “centro” autonomo diventa una chimera); un sistema della giustizia limpidamente garantista; e, non da ultimo, una lotta senza quartiere contro la muraglia dei privilegi e dei corporativismi su cui si infrange qualsiasi vento riformatore.
Caro direttore, come ho già avuto modo di sottolineare su queste colonne, la diciannovesima legislatura, complice una legge elettorale scriteriata, ha fin qui incentivato nello schieramento di opposizione la ricerca di alleanze spurie, sostenute da programmi contraddittori. In realtà, nell’arco degli ultimi tre decenni l’Italia è stata sottoposta a una torsione senza precedenti nel panorama delle democrazie occidentali: una serie di riforme elettorali, in due casi (Porcellum e Rosatellum) concepite anzitutto per tagliare le unghie, rispettivamente, al centrosinistra e ai Cinquestelle; e, più in generale, tese a creare dall’alto un modello bipartitico attraverso un cervellotico meccanismo delle coalizioni pre-elettorali.
La battaglia contro le degenerazioni del parlamentarismo si è caricata pertanto di un significato palingenetico e persino morale, in virtù di una analisi che attribuiva al proporzionalismo la responsabilità della partitocrazia, fonte di ogni corruzione, clientelismo e arretratezza, nonché dell’insostenibile debito pubblico. Si è così affermato un movimento d’opinione giustizialista, che individuava nei referendum elettorali la leva decisiva con cui passare dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia decidente”, garantita appunto dal maggioritario e da un bipolarismo di coalizione. I fatti, insomma, dicono che la stagione del maggioritario è stata avara di risultati non soltanto sul terreno dei mezzi (la governabilità), ma anche su quello dei fini (le riforme di struttura -come si chiamavano una volta- economiche, sociali e istituzionali). Ci sarebbe tanto da fare, quindi, per un nuovo soggetto liberaldemocratico che avesse voglia di anteporre le ragioni comuni agli orticelli dei singoli partitini.
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