Il pontificato di Papa Bergoglio ha archiviato in modo spregiudicato il lungo, delicato e sofferto lavorìo con cui la Chiesa cattolica ha gestito la propria antica tradizione antisemita. Le acquisizioni post-conciliari, pur precarie e non ancora patrimonio intimo della comunità cattolica, avevano tuttavia inoculato nelle società fedeli al Papa di Roma almeno un senso di vago e oscuro obbligo di rendiconto per duemila anni di inesausta avversione anti-ebraica.

Bergoglio e le accuse di terrorismo e genocidio a Israele

Il regno di Francesco ha purificato il corpo di quelle società dal fastidio delle contrizioni pregresse, riportandole all’assetto sentimentale che non rispolvera il deicidio (quando non lo fa) non perché sente l’ingiustizia e l’inumanità di quell’addebito, ma perché dopotutto non ne è ancora completamente libera la propalazione. Inutile precisare che, nell’impostazione del proprio pontificato, Bergoglio non ha fatto in termini dottrinali quel lavoro revisionista nei rapporti con l’ebraismo. È stato infatti, come in altri campi, un attivista prettamente ed energicamente mondano. Sarebbe ingeneroso, ora che è morto, evocare il commosso ricordo che gli hanno dedicato i nazisti di Gaza: ma è doveroso ricordare che Papa Bergoglio ha scelto di capeggiare il vasto movimento mondiale che non solo – e basterebbe – ha negato allo Stato ebraico il diritto di difendersi da chi vuole distruggerlo, ma ha pregiudizialmente criminalizzato quell’atto di difesa.

Il capo della Chiesa cattolica avrebbe potuto soffrire per le sofferenze di Gaza, e reclamarne la cessazione, senza scegliere di parlare di “terrorismo” quando Israele ha cominciato a difendersi e, soprattutto, dopo non averne parlato quando i nazisti di Gaza hanno aggredito Israele. Ma è stata esattamente questa, la sua scelta. Avrebbe potuto decidere di dedicare le proprie implorazioni alla difesa dei civili innocenti senza alludere al genocidio, un termine che non ha toccato la mente di Bergoglio quando i nazisti di Gaza rivendicavano gli eccidi del 7 ottobre e promettevano di farne ancora e ancora fino all’eliminazione dell’ultimo ebreo. Ma questa è stata la sua decisione.

I suoi discorsi e i cortei dell’Intifada

Non basta. Perché ovviamente non è stata senza effetti, nelle società sottoposte al messaggio di Papa Francesco, la mancanza di empatia di cui egli ha dato prova nei confronti del popolo ebraico. Non sono state senza conseguenze le sue plurime e sbilanciatissime dichiarazioni sul conflitto, né il sostanziale disinteresse di cui ha fatto mostra a proposito della più grave insorgenza antisemita da decenni a questa parte. Diciamo pure che fosse oltre le sue intenzioni, ma i discorsi di Bergoglio andavano a ingrossare i cortei dell’Intifada; andavano a contrassegnare autorevolmente gli slogan sulla Palestina libera dal fiume al mare. Lui lo sapeva. Lo vedeva.

Bisognerà vedere se l’orientamento pregiudiziale imposto da Papa Francesco all’immagine e alla predicazione della Chiesa cattolica nei rapporti con il mondo ebraico costituirà, per la Chiesa stessa, un precedente di ulteriore sviluppo o una semplice parentesi di arretramento. Il fatto che si sia trattato di una militanza molto incarnata, con inesauste concessioni a pratiche di carezzevole legittimazione del popolare pregiudizio antisemita, lascia temere che la Chiesa possa essere indotta a trarre vantaggio, anziché motivo di cruccio, da una simile eredità. Non è certo, ovviamente. E può darsi, appunto, che si assista invece a un processo di salutare revoca dell’impostazione che, con Bergoglio, ha portato la Chiesa cattolica a rinnegare – dopotutto rinnegando anche sé stessa – le pur timide acquisizioni di cui era stata capace nella soluzione della terribile storia di cui è stata protagonista con, e contro, il popolo ebraico.

Lo vedremo presto, probabilmente. Perché purtroppo saranno frequenti, e gravi, i casi in cui la coscienza della Chiesa cattolica sarà interpellata in argomento.