Non possiamo programmare il nostro futuro, anche in Italia, senza inquadrarlo nel mondo globalizzato al quale siamo connessi, anzi iper-connessi. Lo eravamo nel mondo pre-Covid, lo siamo nel mondo post-Covid. La globalizzazione è stata un fenomeno di progressiva integrazione economica, politica e culturale, animata dalla crescita economica e dallo sviluppo tecnologico. La spinta che ha guidato questo processo è stata la ricerca di economie di scala attraverso coordinamento comune e standard condivisi. La “iper-connettività” che ha caratterizzato la globalizzazione ha generato un flusso crescente transnazionale di risorse economiche, beni, servizi materiali e immateriali (per esempio, quelli finanziari), tecnologie, e, forse ancor più rilevante, un flusso transnazionale di conoscenza, consuetudini, credenze, modelli di comportamento, obiettivi e aspirazioni. Un processo, tuttavia, non uniforme nel corso del tempo né diffuso egualmente fra Paesi, gruppi sociali e individui.

Queste differenze hanno creato disuguaglianze e prodotto un processo di “distruzione creatrice” che ha teso a sovvertire interamente l’ordine delle società pre-esistenti e di cui dobbiamo ancora valutare pienamente le conseguenze. La globalizzazione ha prodotto anche l’effetto indesiderato della perdita di fiducia nelle istituzioni, sia a livello locale che globale, a causa del trasferimento di potere economico e sociale a centri egemonici e in assenza di istituzioni globali in grado di gestirne le conseguenze. La sfida era rappresentata dalla difficoltà di affrontare a livello nazionale le conseguenze dell’ampliarsi delle diseguaglianze in termini sia economici sia di potere di controllo dei network globali che determinano le nostre società. Si sentiva la mancanza di una governance o di istituzioni globali capaci di affrontare il problema dei perdenti nelle sfide competitive globali.

È inutile sottolineare che l’Unione europea non sfuggiva a questo problema, anche se appariva potenzialmente più attrezzata del resto del mondo qualora avesse ritrovato le ragioni del suo stare insieme e avesse superato la sfiducia crescente tra i Paesi membri. Ma per ricostruire in Europa la fiducia era necessario tornare a discutere del “perché” stiamo insieme e non concentrarsi solo sul come stare insieme, cioè sulle regole. Il “come” stare insieme, cioè l’architettura delle regole, doveva conseguire al “perché”, cioè rispondere efficacemente ai problemi posti dal mondo globalizzato e iper-collegato. Il progetto dell’Unione europea aveva bisogno di puntare a qualche cosa di più grande, per giocare un ruolo più decisivo nel creare una globalizzazione sostenibile. Avveniva il contrario. Essa era paralizzata da regole che non consentivano di tener conto della mutevolezza delle condizioni economiche, mutevolezza accresciuta proprio per le connessioni economiche globali, e che impedivano rapidi aggiustamenti discrezionali delle politiche e una risposta adeguata alle sfide di un mondo iper-connesso. I tecnicismi avevano maggior peso politico delle ragioni fondamentali del cooperare fra Nazioni. C’era già la consapevolezza che, in tal modo, non avremmo ricostruito mai la fiducia. Non tra i continenti, non tra i Paesi, e non all’interno delle nazioni. Questo era lo scenario e di questo si dibatteva con preoccupazione a livello internazionale prima della pandemia.

Se torniamo a guardare lo scenario descritto capiamo che il Covid-19 non ha solo causato lutti immensi e una crisi economica senza precedenti, con conseguenze forse di lungo periodo, ma ha anche accelerato e fatto esplodere problemi e contraddizioni che dovevamo affrontare già prima della pandemia. La cooperazione economica internazionale stava già cedendo il passo a tensioni e conflitti e la carenza di istituzioni e regole globali capaci di affrontare il problema dei perdenti nelle sfide competitive globali già minava la coesione sociale e la fiducia nei governi nazionali. Il basso livello di investimenti, pubblici e privati, pur in presenza di ampia liquidità, era un problema non risolto. In Europa erano evidenti i limiti della politica monetaria espansiva nel tentativo di rilanciare consumi, investimenti e contrastare la deflazione.

Questi limiti erano denunciati anche dalla stessa Banca centrale europea che lamentava la non collaborazione delle autorità nazionali di bilancio, almeno di quelle che avevano lo spazio fiscale per fare da traino all’Europa per accelerare la crescita. Oggi, il mondo sembra essersi rovesciato. La pandemia ha costretto a sospendere le regole fiscali europee per consentire un intervento di spesa in deficit, di proporzioni prima inimmaginabili, al fine di impedire il collasso delle economie. Le banche centrali di tutto il mondo, compresa quella europea, si pongono oggi il problema opposto di quello denunciato prima della pandemia, cioè stabilire fino a che punto esse dovranno, o potranno, per contrastare una possibile depressione globale, continuare a finanziare un debito, pubblico e privato, che rischia di essere esplosivo a livello globale. Il mondo è entrato sul piano finanziario in un territorio sconosciuto.

Ma in che misura la pandemia ha migliorato la capacità del mondo di giovarsi di una globalizzazione sostenibile e in che modo ha cambiato l’atteggiamento dei Paesi dell’Unione europea sul “perché” e sul “come” stare insieme? Questi interrogativi sono cruciali per capire il contesto globale in cui l’Europa, e quindi l’Italia, dovrà disegnare il futuro delle proprie generazioni, che per alcuni sembra oggi dipendere solo dalla concessione di crediti europei, cioè da un problema di bilancio. Non sembra, per esempio, che la questione della fiducia, che appariva centrale prima del Covid-19, si presenti oggi in modo molto più positivo. L’emergenza sanitaria è stata affrontata senza coordinamento dai singoli Paesi, anche in Europa.

Più in generale non sappiamo ancora in che misura l’impatto asimmetrico dell’emergenza sanitaria tra i Paesi del mondo, e la loro diversa forza finanziaria nel sostenere le loro aziende, verrà utilizzato per una ristrutturazione competitiva e aggressiva delle catene globali produttive e commerciali. Si rischia, inoltre, che i governi cedano alla richiesta di ridurre i collegamenti globali tra le economie, sotto la pressione psicologica della pandemia e in risposta ad argomentazioni di tipo politico sulla desiderabilità di autosufficienza nazionale nella fornitura di beni essenziali. Anche se ristrutturare le catene di approvvigionamento in modo da rendere la produzione più costosa dimostrerebbe una limitata consapevolezza delle interconnessioni tra le economie nazionali nel mercato globale.

Per l’Italia si tratta di capire la svolta europea, non per valutare quanto credito si potrà avere, e in quali tempi, per affrontare l’emergenza di bilancio e finanziare qualche investimento addizionale. L’Europa non è uno sportello bancario e, in ogni caso, l’Italia deve smentire il suo scarso merito di credito. È la visione strategica che conta, cioè la ricostituzione di una volontà di azione comune. Il piano denominato Next Generation Eu e gli altri strumenti di soccorso finanziario comunitario, nascono dal mutamento di prospettiva della Germania che ha capito il cambiamento del contesto internazionale, le difficoltà dei mercati globali, i conflitti geo-economici crescenti che la pandemia non avrebbe attenuato. Di qui la necessità di aggiustare la sua strategia di crescita, e quindi la sua proiezione esterna, puntellando l’Europa, le sue catene produttive, il suo mercato interno.

Nel pieno di una crisi terrorizzante, gli altri Paesi hanno seguito. Alcuni con entusiasmo, ma forse troppo concentrati solo sul bisogno di trovare appoggio finanziario, altri con riluttanza perché ancora concentrati su quel che abbiamo definito il “modo” di stare insieme, cioè sul come compensare la mancanza di fiducia con regole di salvaguardia. L’impressione è che questi opposti approcci dei due gruppi di Paesi, che pur hanno approvato la proposta franco-tedesca, rischino, rinforzandosi l’un l’altro, di indebolire o far naufragare il tentativo di svolta dell’Europa e con essa anche il ruolo che essa è chiamata a svolgere per tentare di ridisegnare le regole globali.

Ci sono segnali di ri-burocratizzazione delle procedure europee per la gestione del piano di ripresa, del resto inevitabili quando il tema è distribuire risorse pubbliche (lo vediamo anche in Italia). E non è chiaro se ci stiamo avviando a una riedizione, forse amplificata, di mera gestione di una sorta di nuovi fondi strutturali, questa volta prevalentemente a prestito. Saremmo in tal caso già tornati indietro, perché sono le regole generali europee che devono essere ridisegnate. E abbiamo bisogno di piani e programmi europei, non di controllo europeo su progetti nazionali. Ma ciò non sarà possibile senza un recupero di fiducia reciproca che può avvenire solo su una condivisione strategica della posizione dell’Europa nella sfida competitiva globale, sul “perché” vogliamo stare insieme e, di conseguenza, su una visione condivisa del futuro della globalizzazione.

Il mondo ha bisogno di un’estensione del multilateralismo, dal ristretto mondo finanziario ed economico in cui è stato confinato dalla visione parziale di Bretton Woods a una visione più ampia, con istituzioni globali che davvero affrontino le sfide della globalizzazione in tutte le sue implicazioni. Questo ampliamento di visione è specialmente importante per le istituzioni europee, perché siamo arrivati a livelli di integrazione unici al mondo e, se non agiamo, rischiamo, in definitiva, il collasso disastroso di un intero continente. Sarà un processo ancora lungo e complesso, ma è comunque una prospettiva migliore del triste scenario di un sistema che si auto-distrugge per contraddizioni interne.