Tra le tante sciocchezze che si ripetono in materia di giustizia la più ricorrente è questa: che ci si deve difendere “nel” processo e non “dal” processo. E che chi fa il contrario si rende responsabile di una specie di mascalzonata. A quelli, e sono purtroppo tanti, che come pappagalli ripropongono la canti-lena, qualcuno potrebbe spiegare che difendersi anche “dal” processo, se non è proprio un diritto, almeno può costituire un comportamento comprensibile.

Per esempio: se il processo fosse fatto con la tortura, o se fosse celebrato per infliggerla, daremmo ancora di mascalzone al poveretto che tenta di sottrarvisi? L’obiezione è prevedibilissima: “Ma qui da noi la tortura non c’è!”. E invece c’è. C’è nelle nostre leggi e c’è nella realtà della nostra situazione carceraria: quelle e questa inaderenti alla nostra Costituzione; quelle e questa oggetto delle censure della giustizia europea. E allora si capisce che dovrebbe risuonare un po’ meno indiscutibile il monito a difendersi “nel” processo e non “dal” processo. Dovrebbe apparirne l’essenza vera, d’una rimasticatura buona da propinare in televisione e adatta a ricevere l’applauso cretino.

Come nel caso dell’altro motivetto, altrettanto inascoltabile, secondo cui “le sentenze non si commentano” (e dove sta scritto?), si tratta di luoghi comuni balordi, cui ci si abbandona per pigrizia o disonestà intellettuale. Ma in realtà questi modi di dire secondo formule stereotipate costituiscono modi di intendere, modi di concepire la giustizia e il diritto. Nella banalità della reiterazione denunciano l’idea di fondo che li produce: e cioè l’idea che gli amministratori di giustizia appartengano a un rango incontaminato e sacro, di modo che chi ne contesta l’azione non si rende più solo colpevole di sfuggire a una norma, ma di sacrilegio.

Si può immaginare che queste considerazioni possano prendersi come un invito alla latitanza, come la rivendicazione del diritto di chiunque di proteggersi dalla pretesa punitiva dello Stato, rinnegandola. Chiaramente non è così. Ma il diritto dello Stato di pretendere dai cittadini che essi non si difendano “dal” processo può essere fatto valere a patto che il processo sia di diritto, e a condizione che non infligga ingiustizia e illegalità. E in questo Paese i processi non sempre si svolgono sulla rotaia del diritto, e molto spesso condannano chi ne è vittima a subire ingiustizie inammissibili. Con questo di peggio: che quando pure l’ingiustizia del processo emerge e si manifesta in faccia al pubblico; quando pure risulta che un cittadino è stato sottoposto senza motivo fondato alle attenzioni di giustizia; quando pure, insomma, il processo e la pena lacerano palesemente l’ordinamento civile, ebbene lo Stato fa spallucce e chi ne amministra la giustizia non trova il tempo non si dice di chiedere scusa, ma nemmeno di rammaricarsene.

E a chi decide, nonostante tutto, di difendersi solo “nel” processo e non “dal” processo, questo bel Paese non riconosce nemmeno il bel coraggio che ci vuole.