Lo temevamo, sembrava che quasi ce l’avessimo fatta, ma ci eravamo illusi. Ci eravamo convinti che questo governo nato in mezzo alle polemiche e ai luoghi comuni del fascismo, neofascismo, post-fascismo e anche dell’antifascismo strumentale, avesse giurato di prestare una maniacale attenzione per evitare come la peste qualsiasi allusione che mettesse di nuovo a nudo il suo legame, anche sciattamente sentimentale, col fascismo, con Mussolini e parentela derivata.

Dicono che Giorgia Meloni lo predichi e si raccomandi, ma quando poi arriva alla notte degli Oscar, quando un governo deve fare i nomi dei suoi manager di fiducia per l’assegnazione dei posti di sottogoverno, ecco che salta fuori un clan di parenti, affini e discendenti di Mussolini, sicché come fai a dire di no alla nipote di nonna Rachele, e finisce in disastro. O almeno un figura escrementizia smaltata dalla storia, con inevitabile perdita di punti e di faccia del governo e dell’Italia tutta di fronte all’Europa e al mondo. Lo strabiliante caso registrato ieri è quello di un manager di area governativa, con i sentimenti in orbace, che, per fare lo spiritoso, usa uno dei più miserabili discorsi di Mussolini (quello con cui annuncia l’inizio della vera dittatura) e lo usa come testo base per una comunicazione ai dipendenti di una azienda informatica di Stato e parastato di nome “3-I”.

I dipendenti si sono visti recapitare una email con frasi come questa: “Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di Voi, ed al cospetto di tutto il governo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità di “3-I” (nell’originale “del partito fascista”) di tutto quanto è avvenuto”. E poi: “Se 3-I è stata una mia colpa, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho alimentato nel mio ruolo”. Repubblica giustamente ne fa un gran caso e finalmente il signor Claudio Anastasio, autore di cotanta burla macabra, si dimette davvero, fa fagotto e se ne va. Caso chiuso? Non del tutto. Ciò che qua e la riciccia non è solo la banale apologia del fascismo, le solite braccia tese e qualche starnazzo da manipolo sperduto. Si tratta piuttosto di una nuova forma di cretinismo degna del Corriere dei Piccoli anni Trenta: “Non siamo grandi, siam bambini, tutti parenti di Mussolini”.

Questo manager insediato dal governo Meloni ha usato la parafrasi dell’infame discorso con cui Benito Mussolini, ancora capo di un governo parlamentare, annunciava l’inizio della dittatura e si assumeva la responsabilità civile, penale e morale dell’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti. È un testo violento, funerario ed era la sentenza di morte per la democrazia parlamentare e l’annuncio della sentenza inflitta a Giacomo Matteotti, leader dell’opposizione socialista. Ora, con quali categorie anche patologiche oltre che etiche e politiche si può spiegare impresa come quella di un manager che usa i discorsi di Mussolini per rivolgersi al proprio consiglio d’amministrazione scopiazzando il discorso del 3 gennaio del 1925? Nota a margine: dopo il ritorno della democrazia tutti i partiti hanno riconosciuto il grave errore di avere abbandonato l’aula del Parlamento lasciando il campo al dittatore che con la stessa lugubre grazia portò il Paese alla guerra e alla rovina.

Appunto per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni la quale ovviamente non sarà stata affatto contenta per questa vicenda. L’appunto è questo: tutti ci siamo augurati nel momento in cui passava dalla vittoria elettorale al governo della Repubblica italiana che la premier facesse un passo breve ma visibile per azzerare tutto ciò che le ronza intorno rimettendo ogni volta in discussione la questione del vero o presunto o falso neofascismo del suo governo. L’episodio di Anastasio sembra una barzelletta ma non lo è, sarebbe ora che Giorgia Meloni ne prendesse atto mettendo un punto fermo, definitivo a questo scempio della ragione.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.