L'analisi
Pnrr, meno fretta e spese più meditate: perché Giorgetti ha ragione e Fitto torto
Il Long Pnrr implica minori effetti di crescita al 2026, esattamente perché una parte della spesa da esso finanziata viene posticipata di uno o due anni. Tuttavia non esiste soltanto la dimensione macroeconomica
Il cosiddetto PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è quasi costantemente oggetto di discussioni non soltanto di carattere economico ma soprattutto di stampo politico. In un retroscena pubblicato ieri su Repubblica, Giuseppe Colombo informa i lettori sul contrasto esistente tra il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti e il ministro Raffaele Fitto, responsabile per gli affari europei e nella fattispecie l’attuazione del PNRR stesso. In particolare, la materia del contendere verte principalmente sull’ipotesi avanzata da Giorgetti di contrattare a livello europeo un’estensione temporale del PNRR, oltre la scadenza attualmente fissata del 2026: al contrario, il ministro Fitto sembra largamente contrario a questa ipotesi, temendone sia le ripercussioni economiche (minori effetti espansivi di un “long PNRR”) che quelle politiche (una dispersione del potere negoziale del governo italiano, che gioca su troppe linee di revisione degli accordi europei). Come italiani dovremmo essere ovviamente abituati al fatto che le questioni economiche siano avvolte, se non intrise, di valutazioni politiche.
Peraltro, in maniera saggia e/o realistica la materia che in inglese si chiama “economics” in italiano è nota come “economia politica”: in questo modo la possiamo distinguere dall’economia aziendale che è focalizzata sulle scelte tattiche e strategiche delle imprese, ma nel contempo possiamo coglierne in maniera esplicita la natura politica, e dunque la relativa distanza dalle scienze naturali per se stesse. Sulla questione specifica del Long PNRR gli aspetti politici sono quelli di cui dicevo sopra: la domanda da porsi è se sia opportuno che il governo Meloni si metta a contrattare sull’estensione del PNRR stesso, quando la prossima legge di bilancio dovrà essere decisa – ed eventualmente difesa a Bruxelles – in un contesto reso più difficile dal macroscopico e non del tutto inatteso incremento del deficit, a sua volta causato dai costi abnormi del superbonus edilizio di contiana memoria. Dall’altra parte vi è una discussione prettamente economica su quali possano essere le conseguenze dell’estensione del PNRR stesso.
Su questa seconda questione è necessario focalizzarsi sui meccanismi attraverso i quali – secondo le valutazioni fatte dal Ministero dell’Economia stesso – il PNRR è in grado di svolgere i suoi compiti di propulsione e modernizzazione dell’economia italiana, ovvero le finalità per cui è stato creato. Ebbene, le stime del Ministero dell’Economia (MEF) relative agli incrementi di crescita economica dovuti al PNRR si basano sulla presenza di effetti tangibili del PNRR sia dal lato della domanda (maggiore acquisto di beni e servizi) che dal lato dell’offerta (maggiore produttività). Più precisamente, soprattutto nel breve termine il prodotto interno lordo del nostro paese trarrebbe vantaggio da una maggiore domanda di beni e servizi a motivo degli acquisti finanziati dai trasferimenti a fondo perduto e dai prestiti agevolati contenuti nel PNRR: secondo un meccanismo genuinamente keynesiano, in condizioni di eccesso di offerta (troppa produzione rispetto alla domanda espressa da famiglie, imprese, settore pubblico e settore estero) tali acquisti aggiuntivi spingerebbero verso l’alto la produzione e l’occupazione.
D’altro canto, nel medio-lungo termine gli investimenti in ambito digitale, sanitario, delle infrastrutture, dell’istruzione e della transizione ecologica dovrebbero agire dal lato dell’offerta, cioè incrementare la produttività del sistema economico italiano, anzi dovrebbero incrementare la velocità con cui mediamente la produttività cresce nel tempo: usando il gergo degli economisti, il tasso di crescita della produttività dovrebbe essere sistematicamente più alto grazie al PNRR rispetto a una situazione controfattuale (cioè non esistente, ma rilevante come paragone) in cui il PNRR non esiste. In termini numerici, la combinazione degli effetti di breve e medio-lungo termine, di domanda e di offerta, dovrebbe portare secondo le stime fatte dal MEF a un Pil italiano nel 2026 che è più alto del 3,3 percento rispetto allo scenario controfattuale in cui è assente il PNRR. Sotto questo profilo di carattere “meccanico” – tornando al contrasto tra Fitto e Giorgetti – il Long PNRR implica minori effetti di crescita al 2026, esattamente perché una parte della spesa da esso finanziata viene posticipata di uno o due anni. Tuttavia, non esiste soltanto la dimensione macroeconomica relativa all’ammontare totale di spesa aggiuntiva fatta grazie al PNRR: parafrasando il ragionamento di Mario Draghi sulla distinzione tra debito pubblico buono e cattivo (in funzione della “bontà relativa” delle spese che esso va a finanziare) in maniera del tutto simile si può argomentare sul fatto che non tutte le spese pubbliche siano parimenti buone, non soltanto dal lato della domanda ma anche e soprattutto dal lato dell’offerta.
Partiamo dal lato della domanda: senza abbracciare una prospettiva eccessivamente autarchica, l’incremento della domanda di beni e servizi prodotti in Italia è minore quanto più la nostra filiera produttiva non è in grado di soddisfare tale domanda, così da incrementare in maniera diretta o indiretta le importazioni da altri paesi. Dal lato dell’offerta, è invece piuttosto ovvio che gli investimenti finanziati dal PNRR debbano essere “ben centrati”, cioè capaci di incrementare la produttività del nostro apparato produttivo. Piccola parentesi di storia del pensiero economico: uno dei primi economisti che ha ragionato in maniera sistematica sul concetto di “Stato fattore della produzione” fu alla fine dell’Ottocento Antonio De Viti De Marco: in un eccesso di simpatia per il pensiero keynesiano noi italiani abbiamo forse peccato di scarsa memoria nel tenere presente quanto sia rilevante la produttività del sistema economico e quanto lo Stato stesso giochi un ruolo dal lato dell’offerta, cioè nell’essere esso stesso buon gestore delle risorse e nel rendere maggiormente produttive le imprese private.
Tornando al punto iniziale, questo secondo profilo, cioè la distinzione tra spese pubbliche relativamente buone e cattive, rafforza a mio parere la posizione del ministro Giorgetti: la fretta potrebbe essere anche in questo ambito macroeconomico cattiva consigliera, e indurre – date le capacità organizzative non esorbitanti delle nostre pubbliche amministrazioni – a spendere celermente ma non necessariamente bene, semplicemente a motivo del fatto che le scadenze del PNRR incombono. A pensarci bene, il senso di fretta e urgenza potrebbe avere altresì indotto nel 2020 il governo italiano a richiedere un ammontare eccessivo di fondi europei nel momento in cui fu inventato il PNRR stesso (Next Generation EU per usare la definizione corretta). In quel frangente probabilmente la fretta e l’urgenza che caratterizzarono le scelte italiane erano, a onor del vero, piuttosto giustificabili, ma in maniera piuttosto rapida ci si poteva accorgere del fatto che già nella seconda metà del 2020 il rimbalzo del Pil fu estremamente veloce e robusto, rispetto al tragico secondo trimestre del 2020. Tant’è. Le condizioni economiche attuali sono largamente migliori rispetto alla prima metà del 2020: a livello non solo italiano ma anche europeo ci si dovrebbe affrettare nel dare meno spazio alla fretta, così da spendere in maniera più meditata e produttiva le tasse pagate dai cittadini. Perché non farne un tema di campagna elettorale per le europee?
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