Eppure era partito con i fuochi d’artificio per “l’occasione storica mai vista per l’Italia”, “un nuovo miracolo economico”, “la più grande operazione di investimento pubblico”. Ma in vista ormai della metà del guado, sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza più che lo sprint alla Usain Bolt si allunga l’ombra della fantozziana Coppa Gobram. Già, perché l’impietoso conto alla rovescia iniziato il 16 agosto 2021 mostra tabelle di marcia che non marciano come dovrebbero verso il traguardo del 31 luglio del 2026, giorno in cui i cantieri dovranno essere chiusi pena la restituzione dei fondi impegnati. Ed è in gioco una montagna di soldi, 191,5 miliardi di euro messi sul piatto dall’Unione europea, con 68,9 miliardi a fondo perduto e 122,6 di prestiti, più i 13 miliardi del React EU e i 30,62 del Fondo Complementare per un totale di 235,12 miliardi da investire in 6 anni. Ma basta girare per uffici ministeriali, regionali e comunali per cogliere stati generali di disillusione e un clima da remi in barca e ordinario tran tran. E non a caso i verbi più gettonati nelle defatiganti trattative con la Commissione europea sono rimodulare, ricalibrare, tagliare, traslare, cancellare e soprattutto supplicare inutilmente Bruxelles di chiudere un occhio sulle falle e ammorbidire le Operational Arrangements per il riconoscimento semestrale delle rate.

Già ai primi giri di boa delle prime tre rate, la Commissione ci ha graziato, in attesa di performance migliori. La prima rata di 24,9 miliardi è stata erogata ad agosto 2021. La seconda da 21 miliardi a fine aprile 2022. E la terza da 21,8 miliardi euro solo il 28 luglio scorso dopo un esame durato mesi per via della gran parte dei 55 obiettivi della rata non centrati. Solo con generosi compromessi è arrivato l’ok di Bruxelles ma facendo saltare impegni presi come per i 7.500 posti letto negli alloggi universitari entro il 2022 sostituito dal molto meno impegnativo “obiettivo qualitativo” dell’avvio delle gare, così per gli asili nido traslati sulla quarta rata e riducendo i previsti 265 mila posti in più, per meno scuole da mettere in sicurezza, meno impianti agri-fotovoltaici e per le comunità energetiche. E per le prossime rate il governo ha già ufficializzato 144 modifiche di progetti e riforme accampando cause dagli aumenti di costi delle materie prime ai ritardi sulle riforme.

Gli obiettivi 

Un pessimo segnale è poi il caos delle proteste in corso di sindaci e presidenti di regione di ogni latitudine politica dopo l’annuncio del ministro Raffaele Fitto del definanziamento di 16 miliardi di euro di opere, peraltro alcune al dopo gara, in corso o addirittura concluse ma considerate “non finanziabili” o bollate con “non ce la faranno mai entro il 2026”. Fitto promette coperture da un sistema di vasi comunicanti con scambi tra PNRR e Fondi di Coesione, RePowerEu e nazionali, ma senza dettagliare cifre e tempistica di arrivo, come nota anche l’ufficio studi della Camera.

La scure del governo non ha nemmeno risparmiato la cifra già dimezzata di 1,287 miliardi per interventi urgenti “per la riduzione del rischio idrogeologico”, definanziando integralmente l’investimento che doveva proteggere 1,5 milioni di italiani. È sparito anche il target della depurazione delle acque reflue e addio ai 600 milioni per reti fognarie e depuratori al Sud che dovevano far uscire dal Medioevo 2,57 milioni di italiani e ridurre le sanzioni Ue per 145mila euro che paghiamo ogni santo giorno. Si abbassa anche questa asticella perché il governo non trova l’accordo sulla nomina del “Commissario Unico per la depurazione”, la cui struttura da mesi è ferma. E anche i 2 miliardi di infrastrutture idriche slittano dal 31 dicembre 2023 al 30 giugno 2026. Come per i sistemi irrigui.

Tasso da lumaca

Ma ogni relazione semestrale, compresa la prima del governo Meloni, mostra disallineamenti disarmanti tra entrate e uscite, come ha rilevato la Corte di Conti nel suo dossier di 386 pagine del 28 marzo scorso. Il tasso di realizzazione è da lumaca, intorno al 12%, con 23 miliardi spesi, la metà del previsto. Ma è una spesa “drogata” dagli incentivi in “automatico” già previsti dai piani nazionali precedenti e fatti traslocare nel PNRR: crediti d’imposta della Transizione 4.0, bonus edilizi, superbonus. Senza incentivi all’industria e all’edilizia, il PNRR scende a 10,024 miliardi spesi, appena il 6% del totale. E i magistrati contabili sottolineano come “…oltre metà delle misure interessate dai flussi mostra ritardi o è ancora in una fase sostanzialmente iniziale dei progetti…”.

Il precedente Marshall

Manca decisamente quel clima da grande impresa nazionale. Quel “tocco magico” con capacità di coesione e prestazioni titaniche che l’Italia nella nostra storia repubblicana più volte ha messo in campo. Do you remember il gigantesco Piano Marshall, l’European Recovery Program per la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale? Il Segretario di Stato Usa George Marshall lo annunciò il 5 giugno del 1947, e per l’Italia a brandelli significava risorgere e mettersi sulla pista di lancio del boom economico. Arrivarono 1,5 miliardi di dollari, donati a fondo perduto dallo zio Tom, quasi un PNRR da 164 miliardi di euro di oggi. E l’Italia di De Gasperi e Einaudi, con sostegni sottobanco o alla luce del sole delle opposizioni, avviò massicci investimenti su reti elettriche, acquedotti e fognature, ferrovie, case popolari, 204 strade, 70 ospedali, 188 scuole, porti. Amministratori pubblici e dirigenti comunali, tecnici e lavoratori ingaggiarono una battaglia corale, e quella montagna di dollari trasformò l’Italia. Non tutto filava liscio. Marshall minacciava De Gasperi di non staccare assegni perché “dovete fare di più”. Ma quando, nell’aprile del 1951, visitò l’Italia e il padiglione European Recovery Program alla Fiera Campionaria di Milano, dopo aver sguinzagliato i suoi agenti alla verifica dei cantieri, versò fino all’ultimo cent. L’Italia non solo fece di più, ma fece molto di più. E qui sta la differenza con l’oggi.

La “Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nel Mezzogiorno d’Italia”

Esaurito il budget di Marshall, l’Italia del centro-sud trovò un nuovo strumento finanziario con la “Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nel Mezzogiorno d’Italia”, istituita con legge 646 del 10 agosto 1950. Altra case history italiana nella sua prima applicazione fino al 1965, con la regia dell’economista e fondatore Pasquale Saraceno che programmò e controllò progetti che portarono nelle aree depresse grandi adduzioni idriche, agricoltura, aree industriali, apertura di siti archeologici unici al mondo. Investirono oltre 1.200 miliardi di lire in una Italia dove il 92,6% delle abitazioni del Sud non aveva il rubinetto dell’acqua potabile e solo il 27% aveva il gabinetto. Il Parlamento unanime lo autorizzò in deroga “…a conferire incarichi ad enti e liberi professionisti e ad assumere personale temporaneo specializzato e quanto altro a tal fine occorrente”. Bisognava correre e l’Italia correva facendo in 15 anni un’altra impresa condivisa al di là di vincitori e vinti e degli interessi politici dei partiti costituenti.

Expo 2015 e il Ponte Morandi

Abbiamo poi dato prove di sapercela cavare in tante altre occasioni. Vogliamo ricordare en passant l’exploit dell’Expo universale 2015 di Milano? Costruita a tempi record contro tutti i profeti di sventura che la davano per spacciata, e che invece mise in vetrina la forza economica e l’appeal del Made in Italy, con l’immagine della qualità proiettata nel mondo. E la ricostruzione in soli 12 mesi del Ponte Morandi di Genova, miseramente crollato il 14 agosto 2018 con 43 morti? Il cantiere fu aperto il 15 aprile 2019 e il nuovo Viadotto San Giorgio progettato da Renzo Piano fu inaugurato il 3 agosto del 2020, realizzato da Fincantieri e Webuild con progetto Italferr e direzione lavori al gruppo Rina, e poteri speciali al commissario Marco Bucci sindaco di Genova. Lavorarono oltre 1.000 tecnici e operai con turni 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Da applausi, e con l’Italia intera a tifare.

Oggi spendere è un peso

E oggi? Nessuno si aspettava il garibaldino “qui si fa l’Italia o si muore”, ma nemmeno l’Italia che trascina stancamente una straordinaria opportunità come se fosse un peso. Le 6 missioni in 16 componenti, 134 investimenti e 63 riforme per 197 misure dovevano mobilitare tutte le articolazioni dello Stato, filiere di categorie e reti delle professioni. Invece, target e milestone fin dall’inizio non hanno né mobilitato né comunicato una visione, una idea condivisa del Paese, il fascino del futuro a portata di mano. E anche la trasparenza annunciata con il clic “Apri il portale e segui il cantiere”, è svanita.

Se…

Troppi bachi minano il PNRR. Aver puntato dall’inizio l’intera posta sulla filiera Ministeri-Regioni-Comuni senza rafforzare e rigenerare con soluzioni concordate ed eccezionali la parte tecnica della PA, da anni depauperata e incapace di investimenti ordinari in almeno metà del Paese. Rimanendo indifferenti a questo, è partito il PNRR come un boomerang lanciato dal Governo Conte 2. Dallo schema avallato dall’Ue non potevano che scaturire progetti a pioggia, ma lasciando i circa 6.000 soggetti attuatori con oltre 150 mila bandi previsti senza supporti tecnici. Potevano essere “arruolati” i tecnici pensionati della PA, come i medici richiamati durante la pandemia, e si sarebbero mobilitati. Potevano essere associate capacità esterne alla PA visto che abbiamo le migliori società di progettazione, il sistema dei costruttori dell’Ance, la rete delle professioni che il mondo ci invidia, mettere in rete le grandi aziende e società pubbliche. Poteva persino essere ripristinato l’incentivo dello zero virgola sui progetti previsto dalla Legge Merloni del 1994 e poi cancellato decretando il crollo degli investimenti pubblici.

Le possibili soluzioni

Per salvare la tristissima previsione che gira di poco più di un terzo del mega-piano “messo a terra” al 2026, andrebbe individuato innanzitutto un terreno di tregua dai conflitti politici, con responsabilità condivise sul PNRR da tutte le forze politiche per il rush finale. E andrebbe aperta una seria riflessione sull’altra cruda verità che lo stallo riporta a galla: la cronica instabilità politica che impedisce programmazioni a medio-lunga scadenza. Dal 1946, in 77 anni, si sono alternati 68 governi guidati da 30 presidenti del consiglio con durata media 14 mesi, 414 giorni che si riducono a 380 dal giuramento alle dimissioni. Lo stesso PNRR ha già attraversato le forche caudine di 3 governi con revisioni e riscritture e 3 modifiche di governance e cabine di regia passate da Palazzo Chigi con Conte, al Mef e alla Ragioneria generale dello Stato con Draghi, e riportate a Chigi con Meloni. La riforma per la stabilità avanzata da Matteo Renzi, centrata sul Presidente del Consiglio eletto a suffragio universale diretto contestualmente all’elezione delle Camere, conviene anche e soprattutto all’Italia dei cantieri.