Il “saluto romano” di Romano La Russa, si perdoni il paradosso, non sottilizziamo, tutto vero, giunge da un uomo, un dolente, che al funerale dell’amico Alberto Stabilini, militante dell’estrema destra milanese, solleva il braccio in un presunto gesto caro alla tradizione sepolcrale dei fascisti. In verità, a guardare bene il video, Romano sta lì a compiere il gesto in modo assai approssimativo, cosa che, quasi certamente, in tempi littori, non gli avrebbe fatto ottenere neppure i galloni di capomanipolo. Nel senso che, diversamente dagli altri partecipanti alle esequie, tutti in piedi davanti al feretro mentre, gagliardi e massicci, mostrano il braccio sollevato verso l’alto in tutta la sua pienezza, il La Russa, assessore alla sicurezza della Regione Lombardia, Fratelli d’Italia così come il più risaputo congiunto Ignazio, nonostante quel nome familiare mussoliniano, mostra una qualche remora proprio nella sollevazione dell’arto. Un implicito “non esageriamo, dai!”.

In quel momento, lo sappiano anche i profani, in attesa della tumulazione, si sta compiendo il rito del “Presente!”, cerimonia di derivazione militare, è vero, nel senso che il “caduto” va immaginato ancora lì vivo tra i suoi “camerati”, anche lui idealmente a rispondere con medesima procedura da piazza d’armi o palazzina-comando. Nessuno come i fascisti, si sappia anche questo, è davvero provetto nel rito del “Presente!”. A Roma, per fare un esempio concreto, tra di loro c’è addirittura un signore attitudinalmente preposto allo scopo, ogni qualvolta occorre in modo marziale rinserrare le fila affinché il saluto giunga nel migliore dei modi, ossia militare, eccolo lì a prestare la propria opera, lo si è visto, non molti anni fa, in occasione del funerale del compianto Teodoro Bontempo. E tuttavia Romano La Russa afferma che non si trattava di saluto fascista bensì di saluto militare, che è ben diverso, nulla di apologetico, semmai brivido di perduto casermaggio, porta carraia, alzabandiera, stecca, “cubo”, far frullare la catenella della chiave del proprio armadietto intorno al dito in senso ora orario ora antiorario, cose che lo scrittore Michele Mari ha narrato nel suo Filologia dell’anfibio; nostalgia canaglia grigioverde.

Se la memoria non mi inganna, va detto ancora che, per anni, finché costoro erano vivi, primi giorni di aprile, davanti alla chiesa della Madonna di Loreto, piazza Venezia, Roma, si raccoglievano gli anziani malfermi sulle gambe ormai reduci italiani di parte fascista della guerra civile spagnola, gli stessi che infine deponevano una corona all’Altare della Patria: anche in quel caso c’era modo di vedere un braccio teso sollevato nel “saluto del legionario”; se le cose stanno così, dunque, una qualche ragione assolutoria Romano potrà comunque vantarla. Assodato che il confine tra apologia e sua variante da contrappello serale è labile, si può comunque argomentare. Restando però in tema, mettendo da parte gli anni del regime con il suo “premilitare” e le adunate del “sabato fascista”, ora che ci penso, alcuni orgogliosi, se non minacciosi, saluti romani ricordiamo di averli visti fare agli uomini del “Boia chi molla” al passaggio della manifestazione antifascista che seguì la rivolta di Reggio Calabria, primi anni Settanta.

Tornando al nodo dell’accusa, al di là della piena attendibilità democratica e antifascista della Meloni che già si prefigura a Palazzo Chigi, occorre dire che l’apparizione del saluto (di Romano), come gli stesso ha detto, potrebbe riassumersi nelle parole autoassolutorie del diretto attenzionato: «Non credevo che il saluto di quindici settantenni rincoglioniti a un amico avrebbe scatenato questo putiferio». Ossia cerimonia residuale, po’ come, perla di YouTube, purtroppo ormai cancellata, gli uomini di Stefano Delle Chiaie che intonano l’inno di Avanguardia Nazionale accompagnato dal doveroso battitacco. Ciò sia detto dopo aver chiarito che il fascismo è bene rifugio persistente nel nostro Paese, o forse, in quest’ultimo caso, non c’era bisogno di chiamare il semiologo per avere conferma di certa prossemica rituale nera. Tornando con puntiglio alla sostanza storica del nostro discorso, va aggiunto nel 1932, in occasione della cosiddetta Mostra della Rivoluzione Fascista nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di Roma, ventennale del regime, per l’occorrenza trasformato in fortezza littoria, un’intera sala venne costellata dalla scritta “Presente!” ripetuta all’infinito, personalmente non c’eravamo, fanno comunque fede gli scatti originali, e sembra comunque che si riferisse proprio ai “camerati”, dunque alla ritualità fascista; Romano La Russa, quando il nome è un destino.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate