Facendo le veci, in questo caso addirittura incredibilmente filiali, del fascio littorio, la fiamma tricolore ha brillato campeggiante nel paesaggio politico murale italiano, sui facsimili delle schede elettorali e perfino sui portachiavi orgogliosamente in possesso dei suoi militanti, per decenni e ancora decenni. Lì a testimonianza “ardente” di un pensiero sopravvissuto alla disfatta, allo scempio di piazzale Loreto stesso.

“Sempre di quell’idea!”, così, cercandosi con gli sguardi, come congiurati, dopo i giorni terminali di Salò si salutavano, riconoscendosi, coloro che già erano stati fedeli fascisti, poco importa se balilla, centurioni, capimanipolo, militi della “Decima” o semplice “zona grigia”.
In ogni caso, proprio “quella” fiamma rimandava alla tradizione della Repubblica sociale italiana, posta su un trapezio dove era inscritto l’acronimo Msi. In verità, leggenda funerea o meno, secondo altri, la fiamma stava sempre lassù a rappresentare il sacello, la “bara”, già trafugata nottetempo da un “camerata” fedele di nome Domenico Leccisi, il sepolcro di Mussolini, dal quale appunto si sprigionava la luce calda della persistenza di un’idea.

Pier Paolo Pasolini, ragionando di orgoglio nero a quel simulacro afferente, racconta un ragazzo, possibile attivista della Giovane Italia, che a mo’ di sfida solleva dal passante dei calzoni proprio il portachiavi-distintivo missino, mostrandolo come segno identitario, possibile kriptonite della mai doma presenza fascista. Lo stesso poeta “onorerà” in negativo la fiamma in alcuni versi d’atmosfera: “Un palco sta su di essa, coperto di bandiere, del cui bianco il bruno lume fa un sudario, il verde acceca, annera il rosso come di vecchio sangue. Arista o tetro vegetale guizza cerea nel mezzo la fiammella fascista”.

C’è ora da ricordarla sui manifesti su sfondo blu, piuttosto che nero, accompagnata, al tempo di Almirante, primi anni ’70, giorni del referendum per il divorzio, da parole simili a una sentenza: “L’ultima speranza l’unica certezza”. Nel tempo del postfascismo, tramontata la Destra nazionale, frutto della fusione con i monarchici, declinata perfino l’esperienza finiana di Alleanza nazionale, la stessa fiamma mostrata un tempo dal ragazzo a Pasolini, trasmigra periferica sul simbolo di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, così dopo un breve interregno nel quale il luogo dell’icona originaria appariva invece una corda annodata non meno tricolore; sapore troppo sabaudo, forse. Svanito infine il trapezio funerario, sostituito da una semplice retta, la fiamma è ancora lì nel simbolo del partito che si immagina adesso prossimo al Palazzo.

Sempre a Giorgia Meloni, viene chiesto di cancellarla, accantonando così, nonostante i retropensieri incancellabili, ogni memoria simbolica che possa far rimembrare comunque il latente neo o postfascismo, ora dei Volontari nazionali e ancora del “Boia chi molla!”, se è vero che lo stesso Almirante, in un discorso parallelo, impose che non fosse invece usata la celtica. La stessa immagine, sia pure in forma di fiaccola, dunque non mossa dal vento, figurava sul simbolo del Fronte della Gioventù, l’ex Giovane Italia, implicito furto ai repubblicani e perfino agli anarchici che proprio la fiaccola da sempre reputano un proprio simbolo, come assicurato perfino da una canzone di Guccini.

Nella commedia politica ed elettorale all’italiana, se per un semplice istante facciamo caso ai filmati in bianco e nero, accanto a scudo crociato, falce e martello, sole nascente, edera, rosa nel pugno, troviamo la fiamma, icona-contrassegno estraneo all’antico “arco costituzionale” antifascista, segno identitario, riferibile perfino alla “fogna” marginale cui vennero relegati i missini per lungo tempo, quindi idealmente carica di una valenza da “setta”, dunque supportata da un plusvalore affettivo, di irrinunciabilità, quasi si chiedesse al mascherato Zorro di rinunciare alla sua iniziale.

Forse anche muovendo da questo dato sentimentale si può comprendere, molto al di là della questione iconica e perfino identitaria che rimanda al neofascismo il perché di una così grande riluttanza ad abrogarla dal simbolo di un partito, sì, erede di una certa tradizione, ma anche intenzionato, lo si è detto, ad accreditarsi come attendibile e non esattamente erede del “bunker” di Colle Oppio dove risiedevano mazzieri pronti a innalzare per se stessi soprannomi impresentabili quali “Er Nerchia”. Si legga in questo senso la straordinaria Autobiografia di un picchiatore fascista di Giulio Salierno, già militante missino Romano pervenuto infine alla Sinistra.

Bomba o non bomba, fiamma o non fiamma, resta, e va detto, che il sentire fascista è da molti ritenuto un bene rifugio subculturale genetico, qualcosa che restituisce comunque calore, certezze, paesaggi identitari rionali e familiari, soluzioni pronte per dare voce a una pulsione autoritaria e semplificatoria. Proprio in questo senso appaiono spuntate, se non risibili, le giustificazioni di coloro, residenti di casa Meloni, che per tirarsi fuori dall’impiccio della memoria della trincea fascista, neofascista o postfascista sollevano come argomento, ai loro occhi convincente, il dato d’essere nati, metti, nel 1977 quando la fiamma, sebbene sempre lì sui suoi manifesti, era già postuma di se stessa.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate