Trentatré sono i detenuti che si sono suicidati in Italia dall’inizio di quest’anno fino alla fine del mese luglio. Nell’anno “horribilis” 2009, quando si raggiunse il picco massimo con 72 suicidi in 12 mesi, i detenuti che si erano tolti la vita fino al 31 luglio erano stati trentuno, due in meno.  Nel conteggio dei 33, sono esclusi i 13 che sono morti in coincidenza con le “rivolte” della prima decade di marzo che, a quel che si sa fino a questo momento, sarebbero deceduti per overdose da medicinali sottratti dalle farmacie delle carceri. Insomma, qualcosa che somiglia molto al volerla fare finita con la vita. Il modo prescelto dai 33 detenuti per auto-sopprimersi in questo 2020 è stato quello del cappio stretto attorno al collo. In quattro casi però si sono suicidati usando il gas delle bombolette per cucinare in cella. Dal quadro desolante descritto in queste prime righe credo risulti evidente quanto sia grave la condizione dei detenuti tossicodipendenti ristretti nelle patrie galere.

Ma questo è stato l’anno del Coronavirus, cioè l’anno che ha stravolto la vita dell’intera popolazione terrestre, ancor oggi angosciata dalla possibile ripresa della diffusione della pandemia e dalle conseguenze future: economiche, sociali, democratiche e di messa in discussione delle libertà personali; un conto che l’era del Covid-19 rischia di far pagare salatissimo a tutta l’umanità. Se ci addentriamo nel microcosmo della realtà carceraria, c’è un di più che occorre considerare per, mi auguro, affrontarlo. Infatti, come ha ben spiegato il Garante Nazionale Mauro Palma, se è vero che il lockdown ha implicitamente funzionato quale esperienza unificante ponendo tutti nella stessa situazione di privazione della libertà, nei luoghi dove la libertà era già precedentemente negata come le carceri, l’ansia per il rischio di un contagio da cui sarebbe stato impossibile difendersi si è aggiunta a quella che tali spazi chiusi di per sé generano.

Una doppia ansia che è spesso sfociata nell’angoscia. E mentre bene o male la vita nella realtà quotidiana è ripresa, nelle carceri possiamo dire che è ancora tutto pressoché chiuso. I colloqui del detenuto con i familiari e con i figli minori, oltre ad essere ridotti nel numero e nel tempo, sono limitati alla presenza di un adulto e di un minore; gli incontri inoltre si svolgono con il vetro divisorio e con il citofono come nel famigerato 41-bis. Le attività trattamentali – che già erano scarse in precedenza – sono azzerate quanto a lavori un minimo qualificanti e a possibilità di attività di studio. La presenza della società “esterna” è ridotta all’osso quanto a volontari e ad associazioni che prestano la loro opera in carcere.

E tutto ciò al netto delle esasperazioni quotidiane di detenuti che non vengono curati anche se gravemente ammalati, di casi psichiatrici e di tossicodipendenti che dovrebbero stare altrove per essere seguiti e curati e, invece, stanno in sezione, di impossibilità di avere contatti costanti con educatori, psicologi e assistenti sociali. Per non parlare dei magistrati di sorveglianza, ancor di più lontani che in passato dal seguire quel percorso individualizzato che il codice penitenziario prevede a proposito della riqualificazione del detenuto e del suo reinserimento futuro nella società. Ciò che non manca sono certamente le “circolari” provenienti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria; l’ultima quella che prevede punizioni più severe (come l’isolamento e il trasferimento) per i detenuti aggressivi verso il personale o che assumano atteggiamenti “antidoverosi” (è scritto proprio così); il tutto riducendo il potere dei direttori, sempre più relegati nell’angolo per cedere spazio a impostazioni muscolose di vita penitenziaria.

Anche l’iniziativa di tradizione pannelliana del “ferragosto in carcere” ha subito un drastico ridimensionamento con i nuovi vertici del DAP: possiamo andare in non più di 5 istituti (su 198) con delegazioni di non più di due persone. Possiamo comprendere le delegazioni ristrette, ma sfugge alla logica la limitazione del numero di istituti da poter visitare. È per questo che i vertici del Partito Radicale hanno rivolto un appello a tutti i parlamentari e consiglieri regionali – che non hanno bisogno come noi dell’autorizzazione del Dipartimento per entrare in carcere (art. 67 OP) – affinché usino le loro prerogative per essere presenti in tutti gli istituti penitenziari in questo momento così difficile e oscuro. Martedì anche un agente si è tolto la vita. Era in servizio nel carcere di Latina ed è il quarto suicida quest’anno fra i baschi blu che prestano la loro opera nelle carceri. Queste sono le ragioni per cui, una visita a detenuti e “detenenti” è importante, per portare conforto e guardare lì dove in pochi vogliono volgere i propri occhi.