Sullo schermo della direttrice, scorrono le immagini delle diciotto postazioni per i colloqui individuali allestite nella Casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso. Una cosa a metà tra le vecchie, chiassose, sale colloqui, con i banconi divisori e le mani che si toccano, un gruppo familiare accanto all’altro, e le sigillate stanzette per i colloqui dei 41bis, con quel vetro che impedisce ogni contatto fisico. Inizia così la fase 2 nelle carceri italiane. Senza grande entusiasmo per il ripristino dei colloqui in presenza con i familiari (il primo giorno a Rebibbia NC erano 36 i detenuti prenotati per il colloquio in presenza, 240 per i videocolloqui), ma con qualche altro timido segnale di apertura: girato l’angolo, nella vecchia casa di reclusione romana è partita finalmente la didattica a distanza per gli iscritti all’esame di maturità, mentre il direttore della Casa circondariale di Cassino comunica che dall’8 giugno vi si potranno riprendere le attività dell’Università cittadina, ivi compreso lo sportello di informazione legale svolto in collaborazione con l’ufficio del Garante regionale. Segni di vita nuova, segni di speranza per il futuro.

La grande paura non è passata: il virus è ancora lì, più fuori che dentro, ma anche dentro. Secondo gli ultimi dati resi pubblici dal Garante nazionale, al 15 maggio erano 121 i detenuti positivi, e 4 ne sono morti. Anche in carcere c’è una leggera flessione dei positivi, ma le condizioni di convivenza e promiscuità sono tali che anche un solo caso non tempestivamente individuato può generare un focolaio di infezione, come è stato a Torino, su cui giustamente la Corte europea dei diritti umani ha chiesto al Governo di riferire. Occorre prudenza, quindi, e giustamente il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e quello della Giustizia minorile raccomandano alle Direzioni degli Istituti di informare i detenuti della possibilità di continuare ad avvalersi delle videochiamate. E i detenuti ormai lo sanno bene, cosa è bene e cosa non è bene fare per prevenire la diffusione del virus. Già mi era capitato a Civitavecchia, nei primi giorni di lockdown, di sentirmi fare una lezione su quel che sarebbe stato necessario a una adeguata politica di prevenzione in carcere, e ieri un detenuto spiegava a me e due operatori sanitari dell’Istituto chi, come e perché dovesse usare i dispositivi di protezione individuale in carcere.

Qualche giorno fa una sezione dell’alta sicurezza di Frosinone mi aveva scritto anticipando il rifiuto dei colloqui in presenza, finché i familiari non avessero potuto andarci in assoluta sicurezza. Per questo alcune prescrizioni con cui la Direzione generale dei detenuti ha voluto uniformare le modalità di svolgimento dei colloqui, nonostante l’indicazione legislativa di valutare localmente le circostanze epidemiologiche e ambientali, sono apparse eccessive, sommando norme a norme, come l’uso di guanti e mascherine, alle barriere in plexiglass, fino al distanziamento fisico con annesso divieto di contatto. Si parla tanto in ambiente penitenziario di responsabilizzazione dei detenuti: anche in questo caso si poteva fare di più, obbligando certamente i parenti a lavarsi le mani e a indossare la mascherina prima del colloquio, ma consentendo ai congiunti-disgiunti di tenersi per mano (salvo obbligare il detenuto a lavarsele accuratamente prima di rientrare in sezione). Non sarebbero state sufficienti queste poche prescrizioni che anche fuori dal carcere abbiamo imparato a rispettare in ogni momento della nostra vita? Potrebbe sembrare oziosa questa domanda, se non fosse che nasce da un’antica idea di specialità del penitenziario che traspare da molte prescrizioni adottate in questi mesi e che potrebbe lasciarlo nel limbo per un tempo indefinito.

La fase 2, abbiamo capito, è quella della convivenza con il virus, in cui si dovrebbe passare dalla “massimizzazione della prevenzione”, esperita durante il lockdown, a cui fanno ancora riferimento le circolari ministeriali, alla “minimizzazione dei rischi”, in cui le necessità (sociali e produttive) della vita civile ci obbligano a correrne, ma con giudizio e soprattutto secondo le norme igienico-sanitarie raccomandate dalle autorità competenti. Nella fase 2 penitenziaria, i colloqui con i familiari erano cosa obbligata. C’è una specifica disposizione di legge, a sua volta tutelata da norme costituzionali e internazionali, che era stata sospesa (suscitando le proteste che sappiamo). Non si poteva fare altrimenti, seppure con tutte le cautele del caso (e con anche qualcuna in più). Ma la fase 2 in carcere non può limitarsi a rari e penalizzati colloqui con i familiari. Detenuti e operatori aspettano qualcosa in più. Me lo diceva ancora quel detenuto incontrato ieri: la chiusura di tutte le attività che comportavano l’accesso dall’esterno di volontari e operatori, la chiusura di intere sezioni, se non delle singole stanze, hanno reso ancora più insopportabile la scansione del tempo vuoto in carcere.

La tensione è palpabile e avvertita anche dal personale di sezione, dai poliziotti che tutti i giorni devono far fronte alle richieste e alle frustrazioni dei detenuti. Come fuori, anche dentro la fase 2 deve iniziare, non più nel senso della “massimizzazione della prevenzione”, ma in quello della “minimizzazione dei rischi”. Va bene incentivare ancora l’uso delle tecnologie, sia per i colloqui con i familiari che per la didattica a distanza, e sarà bene cominciare a pensarne il consolidamento organizzativo nella fase 3, quella del vaccino e del ritorno a una piena e responsabile libertà individuale. Rotto il tabù, dalla rete e dagli strumenti digitali non si potrà tornare indietro. Ma l’uso delle tecnologie informatiche è il buono che è venuto al carcere dalla fase 1, dal lockdown, dalla “massimizzazione della prevenzione”. Non può consistere in questo la fase 2. Se la fase 2 è ritorno alla vita civile e minimizzazione dei rischi e se in carcere la fase 2 parte dal ritorno in visita dei familiari, deve essere seguita da misure che hanno analogo coefficiente di rischio e che possono fare ripartire la vita in carcere e le speranze dei detenuti.

Così come, con tutte le cautele del caso, possono entrare in carcere parenti e terze persone, non si capisce perché non possano farlo operatori di enti e associazioni, docenti e formatori che seguono i percorsi individuali dei detenuti, che consentono loro di conseguire un titolo, di ottenere un documento, di avere un sostegno per il reinserimento sociale. Ci vorrà la fase 3 per la riapertura delle carceri alle città, per gli spettacoli, gli incontri sportivi e quant’altro ha fatto vivere straordinarie giornate di normalità ai detenuti e alle detenute in tante carceri italiane, ma perché – con tutte le cautele del caso, con la mascherina, l’igienizzante per le mani e, se proprio è necessario, con il plexiglass parafiato – un volontario, un operatore di patronato, un tutor universitario domani non può andare a parlare con un detenuto per consigliarlo, seguirlo, sostenerlo?

E perché i detenuti che hanno o possono avere un lavoro all’esterno non possono esservi ammessi, magari riservando per loro, come è in molti istituti, apposite sezioni che non li facciano convivere con chi la propria giornata la passa in carcere? Ritornare, progressivamente, alla vita ordinaria, minimizzando i rischi della diffusione del virus, è possibile anche in carcere, scommettendo sul senso di responsabilità di tutti, operatori e volontari, liberi e detenuti.