Il fenomeno della legislazione «motorizzata» (per dirla con Carl Schmitt), se si manifesta con particolare evidenza in questo periodo di emergenza sanitaria, è tutt’altro che nuovo nel nostro paese. Esso è in vigore da non poco tempo e già un quindicennio fa, per stigmatizzare la tumultuosa e confusa produzione continua di norme in quasi tutti i settori della vita associata, non si è esitato a utilizzare metafore di tipo medico-psichiatrico: si è così di volta in volta parlato di «psicopatologia» delle riforme quotidiane, di legislazione «compulsiva», di «nomorrea» o «sanzionorrea» et similia.

A ben vedere, questa pulsione nevrotica ad aggiungere nuove norme (o a modificare norme preesistenti) nasce, spesso, da un vuoto sostanziale di elaborazione e strategia politica: prima ancora di comprendere le cause reali dei problemi sul tappeto, e di riflettere sui più efficaci strumenti di intervento, si ricorre in fretta all’espediente di creare nuove disposizioni normative (sempre più spesso di natura penale) come comodo e temporaneo tappabuchi, o come mero “ansiolitico” per rasserenare una opinione pubblica allarmata.

La novità di questi ultimi tempi consiste in un ulteriore aggravamento del fenomeno, che potrebbe indurre ormai a parlare di normazione “ad horas” o “all’impronta”. Una esemplificazione emblematica la individuerei nella celerissima proposta normativa che trae spunto dalla polemica recentemente esplosa in seguito alla scarcerazione per motivi di salute (e per prevenire il rischio di contagio da Covid-19) di alcuni boss mafiosi anziani e gravemente malati. Com’è noto, da alcuni fronti politici e da alcuni settori della magistratura inquirente si è obiettato che è pericoloso rimandare in detenzione domiciliare nelle zone d’origine mafiosi di grosso spessore provenienti dal regime carcerario del 41 bis, dal momento che ciò rischia di riconsegnare un pezzo di paese alla criminalità organizzata. Inoltre, secondo il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, equivarrebbe a un segnale di debolezza consentire che un’epidemia pur gravissima possa interrompere lo stato detentivo di mafiosi e terroristi, perché «sarebbe come ammettere di non sapere gestire le carceri.

E questo non è vero. Ci sono tutte le strutture, le professionalità, per assicurare ai detenuti al 41 bis tutta la sicurezza necessaria». Con tutto il rispetto per la professionalità e la competenza di Cafiero De Raho, personalmente non sarei altrettanto sicuro che l’attuale e mal funzionante sistema penitenziario nostrano riesca a garantire ai detenuti quella piena protezione dal contagio che egli sembra troppo ottimisticamente dare per scontata (la mia concreta esperienza di garante siciliano dei diritti dei detenuti mi induce, purtroppo, a nutrire in proposito un certo pessimismo). Ma neppure mi sentirei di esprimere certezze, in termini di prognosi empirica, sul fatto che il ritorno di boss vecchi e malati nelle dimore originarie comporti, pressoché automaticamente, il ripristino del loro antico potere: darlo aprioristicamente per sicuro rischia di perpetuare una concezione mitica del mafioso quale essere onnipotente, e perciò esentato da tutti i limiti umani e dalle forme di fragilità cui sono soggette le persone comuni.

Più realisticamente, penso – e credo di non essere il solo a pensarlo – che la valutazione preventiva del pericolo concreto di riassunzione di ruoli di comando andrebbe effettuata caso per caso, in rapporto alle diverse caratteristiche dei personaggi e dei contesti. Fatte queste premesse, passiamo a considerare il tipo di atteggiamento che il ministro Bonafede ha assunto per reagire alle polemiche di cui sopra. Per prima cosa, egli ha chiesto agli ispettori ministeriali di compiere accertamenti sulle scarcerazioni di boss già disposte dai magistrati di sorveglianza competenti, pur ribadendo – non senza ambigua ipocrisia istituzionale – che tali scarcerazioni «vengono adottate in piena indipendenza e autonomia dalla magistratura» (messaggio politico sottointeso: «io non c’entro niente, spetta ai magistrati decidere; ma poiché hanno deciso in una maniera che anche a me pare inopportuna, come ministro mi riservo di sanzionarli!»).

Nel contempo, ecco riemergere in Bonafede la tentazione compulsiva del miracoloso rimedio normativo: egli ha cioè subito annunciato di concordare col presidente della Commissione Antimafia sulla necessità di introdurre al più presto una nuova norma, che «mira a coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e le Direzioni Distrettuali Antimafia in tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia» (ed ha aggiunto di avere già emanato una circolare che va in questa direzione). Orbene, sorge spontanea una domanda: che vuol dire «coinvolgere» i magistrati delle direzioni antimafia nelle decisioni sulle misure extracarcerarie da concedere ai mafiosi? Si ipotizza di attribuire loro un potere di interlocuzione (sotto forma di parere o qualcosa di simile a un preventivo concerto con i magistrati di sorveglianza), o un vero e proprio potere interdittivo (che darebbe, peraltro, luogo a possibili obiezioni di legittimità costituzionale)?

In effetti, è da escludere che i magistrati d’accusa siano i più adatti a farsi carico di un bilanciamento equilibrato fra tutti i valori, i diritti e le esigenze di tutela che richiedono di essere contemperati nella materia penitenziaria: essi, per specializzazione (per non dire “deformazione”) professionale, sono infatti portati a privilegiare in maniera unilaterale – direi quasi “totalizzante” – la sicurezza collettiva e l’efficacia del contrasto alla criminalità organizzata (per cui passano in seconda linea, ai loro occhi, la tutela dei diritti dei condannati, come appunto lo stesso diritto fondamentale alla salute e persino il diritto alla rieducazione).

Mentre un orientamento tecnico e culturale incline a tenere conto di tutta la complessità delle diverse esigenze in campo è appunto tipico, tradizionalmente, dei magistrati di sorveglianza. Se le cose stanno così, prima di emanare nuove norme urgenti, il potere politico-governativo dovrebbe avere bene chiaro che esiste una connessione stretta tra le possibili forme di coinvolgimento della magistratura antimafia nelle decisioni giudiziarie sui boss che chiedono di uscire dal carcere e i possibili modelli di bilanciamento tra la rispettiva tutela della sicurezza collettiva e della salute individuale: nel senso che enfatizzare il ruolo valutativo delle direzioni antimafia equivarrebbe – inevitabilmente – a porre in primo piano la tutela della sicurezza; mentre attribuire loro un ruolo meno determinante lascerebbe maggiore spazio – come ritengo sia più giusto – a soluzioni giudiziarie di ragionevole compromesso tra i concorrenti valori in gioco. È, in ogni caso, da scongiurare una nuova disciplina dai connotati così generici o dal contenuto talmente pasticciato, da produrre ancora una volta l’effetto di trasferire sulla magistratura lo scioglimento di un nodo problematico che la politica non riesce – da sola – a risolvere.