C’è un nuovo (e singolare) allarme antimafia. Lanciato da diversi magistrati e ripreso anche un po’ confusamente dal Movimento 5 Stelle. Il timore è che le organizzazioni criminali sostituiscano lo Stato nell’opera di assistenza e di sostegno alla parte più povera della popolazione del Sud. Cioè investano una quantità notevole di denaro illegale in azioni di beneficenza, prendendo il posto dello Stato, bloccato dalla burocrazia e dai legacci politici. Lo Stato non riesce ad aiutare queste persone e allora interviene la mafia. La quale punta ad avere in cambio credibilità ed egemonia in alcuni settori della popolazione. E, se serve – in futuro – voti e quindi potere politico. È chiaro che stiamo parlando di un fenomeno e di una preoccupazione paradossali. Possiamo sdegnarci per un’opera di aiuto ai poveri?

Per capire questo paradosso servono alcuni elementi di analisi e di conoscenza del fenomeno mafia che la politica e – di solito – la magistratura si rifiutano di considerare. Anche se sono evidenti. Cerchiamo di capire cosa sta succedendo, perché la denuncia viene da un personaggio serio e preparato come il capo della superprocura antimafia, Federico Cafiero De Raho. Del problema aveva parlato nei giorni scorsi anche il Procuratore Gratteri, ma dare ascolto a Gratteri (quello del terreno per la sua casa ottenuto dalla Asl a sua insaputa…) è cosa complicata. Lo hanno fatto solo i Cinque stelle, i quali hanno scritto a Conte a Bonafede, a nome di Gratteri, per invocare carceri un po’ più blindate di ora, pensando che in questo modo, non so bene perché, si risolva il problema. I 5 Stelle e l’ala gratteriana della magistratura non riescono ad andare oltre questo pensiero: “facite la faccia feroce”, dicono a Napoli. E poi? Poi più feroce…

Cafiero de Raho invece conosce bene la camorra e conosce la ‘ndrangheta, e cioè le due organizzazioni mafiose che in questo momento sono le più potenti. Ed è lui che spiega in che modo le organizzazioni criminali sono velocissime a sfruttare le grandi emergenze, le crisi, per riattivare il proprio legame con il popolo. È un legame antico e molto forte. Di potere, di dominio, di sopraffazione e anche di aiuto. La mafia è padre padrone. Pensa a te e ti sottomette. Ho trascorso alcuni anni in Calabria e mi colpì molto questo fatto: era noto che la mafia pagava mille euro al mese i suoi picciotti di ultima categoria. I manovali manovalissimi. C’erano nei giornali molti giornalisti a tempo pieno che guadagnano cinquecento euro, e moltissimi giornalisti a tempo parziale che ne guadagnano 200. In un call center si lavorava senza diritti e senza orari con stipendi simili.

Nei campi si raccoglievano pomodori sotto il sole che ti spaccava l’anima a due o tre euro l’ora. La ndrangheta era molto più generosa dell’impresa in nero – cioè la più diffusa – ed era più rispettosa dei diritti del lavoro. I sociologi dicono: l’antistato. Però quando i giornalisti ripetono “antistato” capiscono solo l’elemento di contrapposizione militare. Il nemico. Invece la forza dell’antistato è che fa meglio dello Stato, è più vicino al popolo, risolve i problemi che lo Stato crea. Ha una funzione contro la povertà, taglia via la burocrazia. Lo Stato come risponde? Ha sempre risposto in un solo modo, quello di Gratteri: la faccia feroce. Carcere, manette, retate, arresti, talvolta anche in violazione dello Stato di diritto. Lo Stato non si è mai posto il problema di riprendersi quello che la mafia gli ha tolto: il diritto, la politica, la capacità di governo.

Questo denuncia Cafiero De Raho? Sì, credo di sì. Anche lui però commette l’errore di partire non dai fatti, dai drammi, ma dalla lotta al nemico criminale. Il compito della magistratura è perseguire i reati, naturalmente, ed è logico che di questo si occupi. Perseguire i reati, specie i più gravi: come le violenze, i sequestri, gli stupri, gli omicidi. Distribuire pasta e uova e olio, evidentemente non è un reato. Quello che mi ha colpito, nell’intervista di De Raho a Repubblica, è l’uso della parola “perciò”. Perciò – dice – lo Stato deve spicciarsi a intervenire a sostegno del popolo più povero, perché altrimenti lo fa la mafia.

Eh no, non va: lo Stato deve spicciarsi a intervenire perché è il suo compito. Non deve intervenire per impedire un crimine, semplicemente deve intervenire perché è il suo dovere. La politica non è solo un’azione di contrasto alla mafia. Non è solo politica giudiziaria, politica criminale. La politica ha una sua autonomia. Se non ce l’ha muore. Se diventa solo uno strumento di lotta contro altri poteri, e in mano ad altri poteri ancora, diventa acqua fresca. E se la politica è acqua fresca la mafia vince. Vince sempre. La magistratura è convinta di essere onnipotente, invece se non rientra nel suo alveo è destinata comunque a perdere tutte le battaglie.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.