Se Salvini ha compiuto un reato, allora anche quelli che gli hanno permesso di compiere questo reato andrebbero rinviati a giudizio. Invece no, è solo il capo della Lega che interessa. Non è un mistero che il governo giallorosso sia tenuto insieme da due soli collanti: il potere (e le nomine di Stato in arrivo in primavera) e il desiderio di confinare Salvini fuori dalla stanza dei bottoni.

Qui non si tratta di difendere il leader della Lega, che non ne ha bisogno, ma un principio. Per quanto mi sforzi di trovare un parallelismo simile nella storia del nostro paese, infatti, non ricordo un periodo in cui con tanta veemenza la maggioranza e i giornali che guardano questo governo di buon occhio si sono messi a perseguitare l’opposizione.

Sarà impopolare dirlo – ormai non c’è nulla di più impopolare del buonsenso – ma considerate le circostanze non sarebbe il caso di riconsiderare l’utilità dell’immunità parlamentare per gli atti compiuti nell’esercizio della funzione politica? È vero che in uno stato di diritto tutti sono sottoposti alle stesse leggi, ma c’è da chiedersi se può esistere un vero Stato di diritto laddove la separazione tra il potere esecutivo, il potere legislativo e il potere giudiziario non è effettiva. Ormai il tratto caratteristico del nostro Paese, al quale ci siamo tutti abituati e poi sottomessi, è il groviglio inscindibile tra l’esercizio del governo e l’azione giudiziaria come strumento di contrasto a questo esercizio.

Non tentare di sciogliere questo groviglio vuol dire esporre il nostro sistema a un rischio immenso. Non si possono chiudere gli occhi sui rischi che corre un Paese quando gli avversari politici non si combattono con la forza delle idee ma con la forza e basta. La nostra storia dovrebbe insegnarcelo.