Donald Trump è già all’opera, non perde tempo il neopresidente degli Stati Uniti: del resto il mestiere di presidente lo conosce bene, ed una transizione l’ha già vissuta nel 2016, quando ereditò la Casa Bianca da Barack Obama. Ma quello era un mondo completamente diverso, in cui i conflitti sì c’erano, le tensioni che oggi sono sfociate in guerra guerreggiata erano già in atto (nulla nella storia avviene per caso), ma l’Occidente viveva nella sua bolla. Si lottava allora contro l’Isis, contro Al-Qaeda, si temeva il caos africano, sempre nell’ottica di un contrasto acceso al terrorismo di matrice islamica, e si viveva la cronaca in presa diretta della guerra civile in Siria. Tutto a quella che l’opinione pubblica occidentale giudicava come la giusta distanza di sicurezza. Gli Stati Uniti guardavano alla Gran Bretagna che una volta uscita dall’Unione europea avrebbe dovuto stringere ancora di più il rapporto storico, tradizionale, inscalfibile con Washington. Un’altra epoca.

Tutto è cambiato in soli quattro anni, certo le premesse erano già in corso, ma sotto l’amministrazione si è verificata una brusca accelerazione, la storiografica valuterà e attribuirà le giuste responsabilità all’ottuagenario Biden, ma di sicuro lo ha già fatto l’elettorato americano. Non che questa campagna elettorale sia stata caratterizzata da un forte interesse verso la politica estera, tutt’altro, ma questo è normale in un’America ripiegata su sé stessa. Per quanto gli Usa siano impegnati ovunque, l’interesse dell’opinione pubblica è generalmente dovuto alla presenza effettiva di truppe statunitensi impegnate in combattimento, con gli scarponi sul terreno. Forse ad aver inciso nel consenso a Trump è stata proprio la volontà degli Americani di evitare che questo accada nel prossimo futuro. Gli americani non ne vogliono sapere di essere gli “sceriffi del mondo”, e ritengono di aver pagato un prezzo abbastanza alto, ed è questo uno dei mandati imperativi di Trump.

Ma il tycoon sa bene – lui di imperi se ne intende – che non puoi cessare di esserlo senza pagare un prezzo enorme, ed è qui che si staglia la prima differenza tra il disimpegno trumpiano e quello messo in scena da Biden con l’epilogo che tutti conosciamo.  Gli Stati Uniti devono pur sempre svolgere il loro compito, e per The Donald ora vi è quello di ripristinare la pece. Una “pax” trumpiana che lui ha garantito per quattro anni e che deve essere raggiunta nuovamente. Non sarà una pace livellata, eguale su tutti gli scenari, e non potrebbe d’altronde esserlo: ciò che vale per l’Ucraina, non vale per il Medio Oriente, e de relato per Taiwan. Sull’Ucraina non si può prescindere dal trattare con Putin, l’uomo insieme a Zelensky che ha in mano le chiavi della pace. Del resto la grande accusa in forma di battuta che i repubblicani hanno rinfacciato ai democratici e all’amministrazione Biden è stato quello di non aver mai “alzato la cornetta del telefono” per parlare con Putin.

La strada è ardua, anche per Trump, la guerra è andata oltre, e il peso del conflitto non potrà che aggravare le condizioni e i veti da entrambe le parti per il raggiungimento di un accordo. Secondo il Washington Post, Trump e Putin hanno avuto già un colloquio telefonico informale, del quale è stato avvisato anche Zelensky, in cui il Presidente eletto avrebbe, nello stile che gli è proprio, invitato il leader russo a “fermare l’escalation”. Una telefonata che è già un giallo, come spesso avviene in questi casi, con Dimitrij Peskov che ha repentinamente bollato la notizia del Washington Post come “pura fiction”: Secondo il portavoce del Cremlino “l’operazione speciale in Ucraina continuerà” fino “al raggiungimento degli obiettivi prefissati”.

Del resto anche se il colloquio fosse avvenuto realmente, nessuno potrebbe confermarlo, non solo per la delicatezza della cosa, ma anche per un senso di rispetto verso Biden che fino al 20 gennaio è il Presidente degli Stati Uniti. E del resto le sue parole di commento al voto, la disponibilità mostrata nel favorire secondo la migliore tradizione Usa una transizione pacifica e collaborativa non potrebbe essere ricambiata diversamente. The Donald ha stravinto, e non ha necessità di creare strappi o dare adito a polemiche sterili. Lo stesso Trump sta formando la sua squadra di governo, e tante caselle cruciali nella futura politica estera e di difesa (le due cose vanno a braccetto) devono ancora essere riempite. La donna scelta da Trump come suo “Chief of Staff”, Susan Wiles, non ama gli strappi e il clamore e la sua impronta nella vittoria del 5 novembre ne è stata la dimostrazione più evidente.

Trump dalla sua qualche indizio o messaggio politico lo ha già mandato, annunciando che né Mike Pompeo, né Nikki Haley faranno porte della nuova amministrazione. Due ex membri della vecchia amministrazione del tycoon e considerati dalla base repubblicana due “falchi” in politica estera. Trump avrà fino al 20 gennaio per muoversi sotto traccia, poi dovrà inevitabilmente presentare il suo piano agli Stati Uniti e al mondo.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.