In un’ipotetica schedina del lotto sarebbero tutti numeri da giocare: 410, i deputati, 5 Stelle compresi, che alla fine ieri dopo tanto ululare, hanno votato la fiducia al decreto Aiuti; 28 gli assenti 5 Stelle su un totale di 104 aventi diritto; 3, che sono gli ordini del giorno stellati sul Superbonus 110% accolti dal governo e che potrebbero contenere la risposta che attende Conte; e infine 15, il giorno della prossima settimana in cui il decreto, cartina di tornasole di questa “crisi” di governo estiva, dovrà ricevere il via libera del Senato. E se ieri il decreto ha beneficiato del regolamento Camera che consente il voto disgiunto – i 5 Stelle hanno votato la fiducia ma lunedì non voteranno il testo – la prossima settimana questa ambiguità tattica non sarà possibile a palazzo Madama. E la crisi di governo, cioè l’uscita di M5s dal governo, fin qui ventilata, auspicata, minacciata – dipende con chi parli – non avrà più alibi.

Soprattutto non avrà più tempo: o Conte strappa entro l’estate e allora si apre lo scenario del voto in autunno (sarebbe la prima volta nella storia delle Repubblica) oppure la legislatura arriverà al naturale capolinea. Molto probabilmente maggio 2023. In quali condizioni, vista la campagna elettorale permanente della legislatura, non è dato sapere. Almeno avremo la sicurezza di avere un governo e un premier chi si faranno carico responsabilmente di affrontare un autunno che si annuncia difficile, le trattative per il cessate il fuoco in Ucraina da cui poi discendono tante altre cose, la messa a terra della terza e quarta tranche del Pnrr. Dobbiamo quindi ballare altri dieci giorni. Poi le forze di maggioranza dovranno cambiare tattica e scenario perché da agosto in poi la minaccia della crisi di governo non sarà più spendibile nella pur lunga campagna elettorale.

Ieri mattina Giuseppe Conte ha proseguito nella modalità allusiva/minacciosa, la sua preferita e alimentata ad arte dagli spin del suo comunicatore preferito, Rocco Casalino. «Cosa faremo al Senato? Lo saprete quando arriverà il testo. Noi vogliamo collaborare con il governo, abbiamo consegnato a Draghi un documento con le priorità dei cittadini, c’è la disponibilità, la volontà ma anche l’urgenza che si facciano quelle cose importanti. Ieri alla Camera c’era l’affollamento dei giorni in cui si vota la fiducia. Nessuna tensione, in realtà. I capannelli 5 Stelle mostravano – ostentavano? – una ritrovata leggerezza dopo giornate buie. Peccato che nelle stesse ore dalla sede di Campo Marzio arrivano messaggi che alimentano la narrazione di un’uscita/strappo. Del tipo: “In queste ore nel M5s si sta ragionando sull’eventuale uscita dal governo, che potrebbe arrivare già nelle prossime settimane”. Oppure: “Tanti parlamentari pentastellati ritengono che ci siano poche probabilità che il premier Draghi accetti le condizioni poste dal leader Giuseppe Conte a cui arrivano messaggi chiari dalla base perché non è più tempo di penultimatum ed è sempre più faticoso restare in questo esecutivo”. Il bastone e la carota, schema classico. Fin troppo liso.

Quelli di “Insieme per il futuro” ragionavano sugli ordini del giorno, ben 150, e sulle possibilità di individuare qualcosa di utile e fattibile per soddisfare le rivendicazioni 5 Stelle. Tutto vogliono aiutare i cittadini e le imprese e tutelare i più deboli, che è un po’ il senso delle sette pagine consegnate a Draghi. Le strade si dividono quando si affronta il come. Nel Pd qualcuno, pochi, ragionano: “Ma sì dai, andiamo a votare a ottobre e finiamola con questo stillicidio”. Nella Lega sono soddisfatti del fatto che “stavolta Salvini ha azzeccato i temi giusti”: non droga libera (il ddl sulla cannabis, voluto dai 5 Stelle) ma meno tasse e più lavoro per tutti. Persino Fratelli d’Italia – in Transatlantico si affaccia pure il senatore-colonnello Ignazio La Russa – sembra tranquilla: “Noi aspettiamo quello che decide il governo”. Non vogliono il voto neppure loro. Più stanno all’opposizione e più crescono.

Venendo alle cose concrete, ripulite da tatticismi e propaganda, chi tra i deputati, di una parte e dell’altra, sussurra alle orecchie di palazzo Chigi e di Draghi, individua due questioni che possono sbloccare la situazione di incertezza: la norma sul Superbonus al 110% e la possibilità per l’Authority dell’energia (Arera) di sganciarsi dai prezzi altissimi del gas fissati dalla borsa di Amsterdam. Cioè di abbassare i costi delle bollette il cui aumento vertiginoso è ciò che più ipoteca l’autunno. Sono questi i dossier su cui possono arrivare le risposte che potrebbero far dire al Movimento: “Il governo ci ha ascoltato finalmente, condivide le nostre battaglie, andiamo avanti”. Qualche segnale in questo senso è già arrivato nelle votazioni sui 150 ordini del giorno. Il governo ne ha accolti tre proposti dagli stellati. Il primo chiede che la sede dell’antiriciclaggio europeo abbia sede in Italia. Il secondo e il terzo, a firma di Vita Martinciglio e Sut, impattano direttamente sul Superbonus «compatibilmente con le risorse finanziarie disponibili e i vincoli di bilancio, nonché con la disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato».

Per carità, un ordine del giorno non si nega a nessuno. Ma già mercoledì nel colloquio Conte-Draghi il presidente del Consiglio, che considera “sbagliato” il Superbonus (è una copertura per le truffe e ha drogato i prezzi del mercato) è anche consapevole che la norma ormai c’è, tiene in ballo centinaia di imprese edili e ha bisogno di correzioni. Ne sono già state fatte undici. Ne servono altre. Al di là degli ordini del giorno, che indicano comunque la strada, potrebbe essere presto approvato un decreto per sciogliere il nodo più difficile: eliminare la responsabilità delle banche per favorire la cessione dei crediti. E sempre un decreto potrebbe, sulla scia della proposta del capogruppo Davide Crippa, intervenire per abbassare per decisione politica il prezzo dell’energia al cittadino. Alle famiglie e alle imprese. Sarebbero, bollette e superbonus, due medaglie non di latta che il Movimento potrebbe mettersi sul petto. Un ottimo viatico per la campagna elettorale. E per restare in maggioranza.

La coperta della maggioranza è destinata comunque a restare corta. Se allunghi verso i 5 Stelle, accorci lato Lega. E anche il Pd e Italia Viva non possono stare certo a guardare e basta. Se la prossima settimana al Senato le manovre saranno intorno al decreto Aiuti, alla Camera analoghe manovre riguarderanno la legge sulla cittadinanza di diritto ai giovani stranieri nati o cresciuti in Italia. Chiarito che si tratta di dossier di iniziativa parlamentare che non coinvolgono il governo, Pd, Iv, M5s, centristi e un bel pezzo di Forza Italia messo insieme dalla quotidiana opera di convincimento di Renata Polverini, non hanno intenzione di mettere da parte il cosiddetto ius scholae. Salvini e Fratelli d’Italia sono fuori dalla grazia di Dio. Temono che alla fine l’aula abbia i numeri per approvare in prima lettura il testo. Al Senato poi, si vedrà. Ieri mattina Salvini ha riunito i suoi e ha compattato le truppe su questo dossier. «La Lega si metterà giustamente di traverso con tutti i mezzi possibili» ha assicurato anche il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Ma la Lega sosterrà il governo. Al momento non sono previsti strappi nel pratone di Pontida che dopo due anni tornerà in presenza il 17-18 settembre. Si tratta, nei prossimi mesi, di far issare a ciascuno la propria bandiera. Una fatica bestiale.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.