L'autore, le donne, la droga, gli arresti, la vita spericolata
Quanto ci manca Franco Califano: dieci anni fa moriva il mito della canzone italiana
E lo chiamavano “Il Califfo”, e lo chiamavano Califano, e avevi detto tutto. Un mito, un’icona che scoreggiava e che parlava nel sonno, che recitava a memoria la formazione dell’Inter mentre dormiva. Per chi è cresciuto negli anni zero Franco Califano era quello visto al reality show “Music Farm”, una specie di macchietta, una maschera discola e grottesca che rilasciava interviste pruriginose. Non uno dei più grandi autori della canzone italiana, che moriva dieci anni fa, a 74 anni, ad Acilia a causa di un infarto dopo una vita spericolata, anche quella un’opera d’arte.
Di un bastardo venuto dar sud, come aveva titolato il suo primo disco. Canzoni che erano arrivate dopo la poesia, dalla quale si era accorto non avrebbe cavato una lira. Qualcosa che arrivava alla gente de borgata, agli studenti, agli operai e ai criminali – un piccolo cult la scena del matrimonio nella serie tv Romanzo Criminale –, ai professionisti e ai politici. Quella voce l’aveva rimediata in una giornata d’estate, con la capote del suo bolide alzata e il vento in faccia: cordite acuta. Imitata da tanti, inimitabile. Con quella aveva attraversato stralci di storia italiana.
Perché Califano era nato a Tripoli: dove viveva la famiglia, napoletana. Il padre Salvatore era militare in Libia. Quando alla madre Jolanda le si ruppero le acque la donna era in aereo. Atterraggio d’emergenza, ma il bambino era nato in volo. La famiglia rientrò in Italia, qualche anno a Nocera Inferiore, poi a Roma. E lui che scappava puntualmente dai collegi ecclesiastici dove veniva iscritto. Il padre morì quando lui aveva 18 anni. “Ho un rimpianto, uno solo, quello di non aver avuto sufficientemente a lungo vissuto la vita di mio padre. Al quale io sono aggrappato in maniera incredibile, ho amato mio padre così tanto da non riuscire ad amare più. Lui per me era tutto”. Califano è diventato grande in un tempo piccolo.
Da animale notturno ha vissuto la dolce vita della sua Roma nuda e della capitale morale Milano. 32 album, oltre mille opere tra poesie e canzoni, i monologhi, perfino i fotoromanzi. Ha scoperto e prodotto lui i Ricchi e Poveri. Aveva cominciato a scrivere per gli altri, da autore. Ha firmato alcune delle canzoni più belle della musica italiana: Minuetto per Mia Martini, Un grande amore e niente più per Peppino Di Capri, E la chiamano estate per Bruno Martino, La musica è finita per Ornella Vanoni. Questi amori fortissimi, melodrammatici a limite del neomelodico, paesaggi urbani trasandati e pieni di possibilità, l’incubo del dopoguerra e tutti i sogni del boom economico, l’eco degli stornelli romaneschi e i suoni che arrivavano dall’America, niente risultava più simile a una religione del corpo di una donna. E noia, maledetta noia, di una penna in stato di grazia che non sapeva vivere a metà: se l’è cantata da solo la sua esistenza controvento, tutta “buio e luna piena”.
Califano è stato maledetto come una rockstar: è stato Vita Spericolata prima di Vasco Rossi, ha messo insieme il popolare e il dionisiaco, si è portato appresso per tutta una carriera la fama dell’artista controverso. Quando nel 1976 pubblicò Tutto il resto è noia, il disco vendette un milione di copie subito. La titletrack un instant-cult. In copertina la foto con un bambino: era il figlio di Francis Turatello, boss della Mala milanese, massacrato a coltellate nel carcere di Badu ‘e Carros. Eccolo, il “controverso”. Califano è stato arrestato due volte: nel 1970, stesso processo di Walter Chiari e Lelio Luttazzi, possesso di stupefacenti; nel 1984 nello stesso processo di Enzo Tortora, accusato di associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. Assolto con formula piena in entrambi.
“Se vogliamo essere frivoli e sdrammatizzare, come io sempre faccio, mi hanno tolto un anno in cui io ero veramente bello e quindi chissà quante donne avrei avuto in quell’anno”. Le donne. Sue muse, sua ispirazione. Il matrimonio con Rita Di Tommaso, da cui nacque la figlia Silvia, durò solo poche settimane. Lui aveva 19 anni. Diceva di aver avuto oltre 1.500 donne, di non aver mai ricevuto un “no” perché non era mai lui a fare il primo passo. Ha raccontato che dopo essere stato per un anno fermo, a causa di una meningite, a 29 anni, per mantenersi si prostituì con “donne belle e ricche”. Parecchie uscite, anche alcune canzoni, oggi sarebbero censurate o massacrate. Cantava in La mia libertà, un suo manifesto: “Una donna innamorata anche quella più pulita, prima o poi le corna te le fa”.
A Piazza Navona, nel 2008, festeggiò i suoi 70 anni, nel 2010 un brutto incidente domestico. Si manteneva solo con la sua attività, perciò fece appello alla legge Bacchelli, il sussidio per i personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo. Il giorno prima del 30 marzo era morto Enzo Jannacci. Alla Camera ardente in Campidoglio passò mezza Roma, i funerali alla Chiesa degli Artisti. Solo qualche giorno prima, il 18 marzo, visibilmente sofferente, aveva offerto la sua ultima performance al Teatro Sistina. Aveva detto che si sarebbe sentito vecchio solo cinque minuti prima di morire.
“Mi sto stancando molto – aveva dichiarato in un’intervista alla Rai – perché vorrei arrivare alla fine pronunciando la parola: finalmente. Vorrei arrivare alla morte stanco, quindi dopo aver vissuto intensamente e freneticamente ogni cosa che la vita mi offre. Non è un consiglio che do a tutti ma [mi dico, ndr] di non rimandare mai, non perdere mai nessun tipo di occasione perché poi il tempo non ti porta mai indietro, ma avanti c’è solo quello di traguardo. Ritengo di aver vinto tutte le battaglie che la vita mi ha messo contro. Da solo, senza l’aiuto di nessuno. Ritengo di dover per forza di cose perdere soltanto la guerra che sarebbe appunto la fine, ma mi ci sto accostando talmente bene che sarà forse un pareggio”.
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