Per chi lo ha conosciuto attraverso la televisione Philippe Daverio resta un esempio di divulgatore dell’arte, verve spumeggiante e curiosità inesauribile, lontano dai territori dell’ovvio e dei banali bignamini travasato oggi nei wikipedini.  Avrebbe compiuto settantuno anni il prossimo 19 ottobre, essendo nato a Mulhouse in Alsazia da padre italiano, un costruttore che si chiamava Napoleone, e una madre di lì, Aurelia Hauss. Un incrocio di radici in una terra che la storia ha eletto a crocevia d’Europa, non a caso all’origine di qualche conflitto mondiale, ma anche luogo di scambio di culture e di lingue, come lui stesso rivendicava riconoscendovi una sorta di pulsione originaria che gli ha attraversato la vita.

Un’educazione vecchio stampo che lo porta alla Bocconi dove non si laurea pur avendo sostenuto tutti gli esami, che sembra il vezzo aristocratico di chi fa una cosa e la fa bene, ma non si cura del risultato finale. Poi l’attività di gallerista, Milano e poi New York, e quindi la televisione e un’incursione nella politica, assessore alla cultura nella giunta del sindaco Formentini che governò Milano tra il ‘93 e il ’97, con la sfrontatezza di chi ama scavalcare gli steccati e non farsi imprigionare dalle etichette degli schieramenti.

In mezzo, tante cose: collaborazioni con i giornali, libri (tanti), lui stesso editore, sempre con quel tono accogliente e ironico di chi non fa parte della cerchia degli specialisti e magari il piacere di sentirne sullo sfondo il rumore livoroso, L’arte di guardare l’arte, Il secolo spezzato delle avanguardie, Pensare l’arte, Il gioco della pittura a pranzo con l’arte, Grand Tour d’Italia a piccoli passi… fino a La mia Europa pubblicato lo scorso anno. E poi, come detto, la lunga stagione delle trasmissioni televisive, culminate nelle nove edizioni di Passepartout, tra il 2001 e il 2010, e basterebbe scorrere i titoli delle puntate per capire le rotte imprevedibili, laterali, minimaliste, con il gusto del paradosso e dello spiazzamento che Daverio ha percorso: l’utopia dell’arte borbonica, la riva sinistra del Reno, Picasso rivisitato con il Gabibbo, i dioscuri Savinio e De Chirico, Rembrandt vs. Rubens, Notturni dalla Maremma, daje de tacco, daje de punta la danza delle avanguardie, Carracci che sorpresa, Sui passi di Mario Soldati, Vacanze sullo Yangtsé, Rio come la vedo io, Re-cessi, Il naso dei senesi… Insomma, Daverio ha messo insieme un’auto-enciclopedia televisiva del Paese e di un oceano d’arte visitato nei più reconditi rigagnoli.

A questa lunga stagione è legata la sua immagine popolare, il farfallino che aveva esibito anche quando soffiavano i venti del Sessantotto, il panciotto, la policromia delle giacche, il gioco delle citazioni nell’abbigliamento di chi non lascia nulla al caso e là dove i più indossano un vestito lui mette in scena una mise tanto originale quanto ludica nei riferimenti della storia e delle epoche. Con accanto le scritte cancellate di Emilio Isgrò, tanto per dare un segnale ai sopracciò del territorio. Popolare, abbiamo detto, e certo Daverio lo è stato, ma in che senso? Si potrebbe rispondere che ha fatto un esercizio per un verso antico per l’altro forse desueto, e cioè portare l’alto al basso, secondo l’ispirazione del Convivio dantesco, dare a chi non può sedere alla tavola del sapere e della conoscenza e abbia almeno uno spirito gentile, una disposizione insomma, qualche pietanza, con il pane che ne faciliterà la digestione. Un vecchio campo di battaglia che non solo da noi ha contrapposto gli accademici a guardia del fortilizio e questi spiriti aperti alla navigazione e con il piacere di immergersi nel mondo, massimo godimento quello di ritrovarsi sul bordo, di mettere in contatto facendo leva sul narcisismo dell’immagine e la facondia delle parole.

E’ stato un salotto con gli arredi aristocratici, ma aperto a tutti quello allestito da Daverio che ha fatto dello spettacolo di sé stesso un modo per raccontare un patrimonio d’arte, e viceversa, un attimo prima che arrivasse la piena delle rete e cominciasse a mettere in discussioni statuti, posizioni, riserve presidiate. Lui che pure costruiva il suo discorso come una navigazione sul web, con navigazioni che si ramificavano, ne incrociavano altre, trovavano accostamenti e rimandi sorprendenti, da nocchiero-giocoliere collaudato di quei mari, Un mix singolare Philippe Daverio e per certi versi irripetibile, dal genius loci della nascita agli estri nutriti studi, letture, ambienti che non si fanno più, a quell’arte della conversazione e del racconto che non s’impara(va)no ma si respira(va)no per portare ai più il dono della bellezza. Con una smorfia dello sguardo, un ammiccamento e un compiaciuto coup de dés.