La richiesta di democrazia paritaria, che si ripropone fatalmente ogni volta che si avvicinano elezioni di un qualche tipo – in questi giorni l’elezione in Italia del Presidente della Repubblica, in Europa la Presidenza del Parlamento Europeo -, fa emerge, non caso, quella stessa categoria di “genere” per cui le donne sono state escluse dalla polis, considerate per “natura” inadatte a rivestire responsabilità intellettuali e morali proprie soltanto di chi è persona, individuo.

Sappiamo che non sono solo gli uomini a richiamare l’attenzione sul “merito”, come linea di difesa debole e contraddittoria dalla paura di perdere potere e privilegi. Sono tante anche le donne che, per ragioni diverse, rifiutano di pensarsi come parte di un tutto omogeneo o, tanto meno, di un gruppo sociale svantaggiato, bisognoso di tutela.
La contrapposizione genere/individuo non è una novità, viene da lontano, parla la lingua del sesso vincente e della distanza che ha creduto di poter mettere tra la sua libertà, destinata al governo del mondo, e la sua dipendenza dalla materia che, attraverso il corpo della madre lo consegna ai limiti biologici degli altri viventi. Avvalersi della categoria del “merito individuale” o, al contrario, rivendicare un’equa spartizione del “potere” tra uomini e donne, senza analizzarne l’origine e le forme che vi ha impresso sopra il lungo dominio maschile, significa tornare al dilemma senza via d’uscita tra “uguaglianza e differenza”, ridurre un problema di relazione tra i sessi al “valore/disvalore” di uno solo.

Riuscire a pensarsi come un soggetto “femminile plurale”, capace di porre la propria individualità senza cancellare ciò che ha significato l’appartenenza a un “genere”, è stata la svolta portata dal femminismo alla coscienza storica. È solo partendo da sé, dall’esperienza e dalle relazioni personali che si può, affrontando inevitabili conflitti, interrogare e sottoporre a critica le istituzioni, i loro saperi e poteri. Se manca la consapevolezza che le “discriminazioni”, gli innumerevoli “svantaggi” femminili nella vita pubblica dipendono dai ruoli di genere e dalla divisione del lavoro, che da essi ha tratto finora la sua legittimazione “naturale”, le donne possono solo tentare con fatica di fare propri linguaggi, competenze, poteri, creati in loro assenza e svincolati dai bisogni essenziali della conservazione della vita.
Lo scarto che si registra ogni volta tra emancipazione e richiami a quell’autonomia di pensiero che sta alla base delle pratiche femministe di liberazione, era già presente tra le donne impegnate di inizio ‘900.

A farsene interprete è Sibilla Aleramo in uno dei suoi “frammenti di lucida intuizione”: «Gli uomini ai quali parlo non sanno, quando mi dicono con leale stupore che hanno l’impressione di discorrere con me da pari a pari, non sanno come echeggi penosa in fondo al mio spirito quella pur così lusinghevole dichiarazione, a quale insolubile dramma essa mi richiami. Per conquistare questa necessaria stima dei miei fratelli, io ho dovuto adattare la mia intelligenza alla loro, con sforzo di decenni: capire l’uomo, imparare il suo linguaggio, è stato allontanarmi da me stessa (…) In realtà io non mi esprimo, non mi traduco neppure: rifletto la vostra rappresentazione del mondo, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi» (Sibilla Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942).

A distanza di mezzo secolo, nel 2000, è bell hooks nel suo libro Feminism is for Everybody, tradotto recentemente in Italia da Maria Nadotti per Tamu Edizioni, a riproporre con estrema chiarezza la stesso concetto: «Tali basi poggiavano sulla nostra critica di quello che all’epoca chiamavamo “il nemico interno», riferendoci al nostro sessismo interiorizzato. Tutte noi sapevamo per esperienza che, in quanto femmine, eravamo state socializzate dal pensiero patriarcale a considerarci inferiori agli uomini, a vederci sempre in concorrenza tra noi per l’approvazione patriarcale, a guardarci l’un l’altra con gelosia, paura e ostilità. (…) Il pensiero femminista ci aiutò a disimparare il disprezzo verso se stesse. Ci consentì di liberarci dalla presa che il pensiero patriarcale aveva sulla nostra coscienza».

La pratica del femminismo, che ha visto nella visione sessista del mondo interiorizzata forzatamente dalle donne stesse, la prima ragione di una “complicità” col dominatore, a loro danno, e quindi il primo passaggio necessario di presa di coscienza per un cambiamento radicale e rivoluzionario della cultura che abbiamo ereditato, si ripropone oggi più attuale che mai, di fronte alla maggiore richiesta di presenza della donne in ruoli di potere. Guardare a dove cade la scelta, non farebbe male a chi ancora pensa che la strada sia quella di “colmare lo svantaggio di genere”, senza chiedersi come mai siano ancora le destre sostenitrici della famiglia tradizionale a favorirla. Dovrebbero quanto meno fare riflettere, per la candidatura alla Presidenza della Repubblica in Italia nomi come quello di Letizia Moratti, Elisabetta Alberti Casellati, ma ancora di più l’elezione a Presidente del Parlamento europeo di Roberta Metsola, che dice di voler difendere i diritti delle donne ma che al medesimo tempo, in linea con il partito nazionalista di Malta, da cui proviene, e con la sua fede cattolica, si dichiara convinta antiabortista. Chissà che cosa intende per “diritti delle donne”, visto che quello prioritario, perché determinante per l’intera vita di una donna, è di poter interrompere una gravidanza indesiderata.

Che abbia avuto i voti e il benestare anche di partiti come la Lega e Fratelli d’Italia, oltre alle altre rappresentanze nazionali di destra al Parlamento europeo, orientati ad erigere muri contro le migrazioni e contro libertà faticosamente conquistate dalle donne dai ruoli destinati “per natura” al loro “genere”, è sufficiente per farci tornare alla dichiarazione provocatoria e lungimirante di Carla Lonzi, che vedeva nell’emancipazione un possibile rallentamento alle pratiche liberatorie del femminismo.