1. Il silenzio generalizzato attorno al referendum sulla cannabis è stupefacente; come fosse un quesito giuridicamente sballato su un tema dopato, proposto da pochi interessati al proprio orticello (di canapa indiana). Non è così. Il referendum sul T.U. n. 309 del 1990 delle leggi sulle droghe impatta su temi di enorme rilievo sociale: giustizia, sicurezza, salute, economia illegale. Proviamo allora a restituire al quesito il suo contenuto, il suo scopo e le buone ragioni perché la Consulta decida per la sua ammissibilità. Come già fece nel 1993 (sent. n. 28) con il referendum – poi approvato nelle urne – che depenalizzò la detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti.

2. L’attuale regime in materia punisce, con pene draconiane e in modo indiscriminato, qualunque condotta connessa a qualsiasi sostanza stupefacente: se privo di autorizzazione, chiunque la «coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, o comunque illecitamente detiene o consegna per qualunque scopo» (art. 73, comma 1, T.U.) è condannato alla reclusione, a pagare multe dolomitiche, a subire sanzioni amministrative gravemente interdittive.

È questo il rosario di una politica proibizionista, recitato in omaggio al credo antiscientifico secondo cui «la droga è droga» e scandita dal mistero della fede nella «tolleranza zero». Il referendum non attacca frontalmente tutto ciò. Facendolo, anche per le sole droghe “leggere”, sarebbe bocciato a Corte per le ragioni che dirò. Con discernimento, invece, mitiga l’attuale assetto sanzionatorio riducendone i tremendi costi sociali. Vediamo come.

3. Il quesito incapsula tre richieste abrogative. La prima rimuove il divieto di coltivazione dalle condotte proibite (art. 73, comma 1, T.U.), così da evitare la punibilità di quella domestica ad uso personale. È un taglio chirurgico che conserva, invece, la punibilità della produzione massiva di cannabis, come pure di altre piante da cui estrarre sostanze stupefacenti da immettere sul mercato. Opera poi un secondo taglio (art. 73, comma 4, T.U.), mirante a eliminare la reclusione per le condotte vietate aventi ad oggetto la cannabis. Anche qui l’operazione è chirurgica, non incidendo sulle conseguenti pene pecuniarie.

Infine, abroga la sola sanzione amministrativa della sospensione della patente o di documenti equipollenti (art. 75 T.U.). La più odiosa, perché applicata – direbbe Totò – «a prescindere», anche quando il consumatore non è colto in infrazione durante la guida. La più antisociale, perché ostativa alla vita di relazione e lavorativa. Inalterate, sopravvivranno invece le altre sanzioni extra-penali. Il quesito è, dunque, un omogeneo puzzle a tre tessere. Unite, restituiscono una disciplina più mite a condotte che già la prassi sociale riconosce inoffensive e che tali sono giudicate anche in giurisprudenza, ritenendosi non punibile la coltivazione domestica e rudimentale di cannabis per uso personale (Cass., Sez. Un. Pen., n. 12348/2020).

4. L’ostacolo più alto che il referendum dovrà superare è il divieto di abrogazione referendaria di norme imposte da obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano. In ragione di ciò la Consulta ha già bocciato in passato due quesiti radicali (sentt. nn. 30/1981, 27/1997), miranti ad escludere dalle sostanze proibite i derivati della canapa indiana.
È una pietra d’inciampo che si ripresenta: le pertinenti Convenzioni internazionali (firmate a New York nel 1961 ed a Vienna nel 1971 e 1988) prescrivono agli Stati contraenti (Italia compresa) di adottare le misure necessarie a sanzionare penalmente le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti (cannabis inclusa). Ma è davvero un criterio imposto dalla Costituzione? O non siamo, invece, davanti a un limite elevato artificialmente dalla Corte?

5. Per la Consulta, è la responsabilità che ne deriverebbe in capo allo Stato a giustificare il divieto di referendum su norme che attuano impegni internazionali. Perché – in gergo – pacta sunt servanda. Una responsabilità che «la Costituzione ha voluto riservare alla valutazione politica del Parlamento, sottraendo le norme in questione alla consultazione popolare» (sent. n. 30/1981). Così opinando, la Corte ha dilatato oltremisura il divieto dell’art. 75, comma 2, Cost., che in realtà sottrae a referendum esclusivamente le «leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati». Infatti, se è in gioco la responsabilità dello Stato, quel divieto si estende – in potenza – a qualunque norma comunque collegata all’ambito di operatività di un impegno internazionalmente assunto.

Tale strategia, però, è viziata all’origine. Il citato divieto costituzionale, in realtà, ha una ratio diversa da quella sostanziale indicata dalla Consulta. È una ratio meramente formale, dovuta alla peculiare natura giuridica delle leggi di autorizzazione alla ratifica: autorizzato lo scambio o il deposito dell’atto che perfeziona il trattato, tali leggi esauriscono istantaneamente la propria funzione. Non disponendo per l’avvenire, la loro abrogazione è impossibile oltre che inutile. Non si può dire altrettanto per quelle ad esse materialmente collegate (qual è il T.U. sulle droghe). Si tratta, infatti, di leggi vere e proprie che, disponendo per il futuro, hanno un contenuto normativo suscettibile di abrogazione. Ricondurle nel divieto costituzionale, quindi, è insensato.

6. Intendiamoci. La tesi qui criticata è così radicata da non essere più reversibile. È, peraltro, una felix culpa: se – diversamente da quanto accaduto nel Regno Unito – non è possibile una Italexit per via referendaria, lo si deve proprio a questa sviata e sviante giurisprudenza. Ciò detto, se ne può però esigere il contenimento. Ma come? Capitalizzando, innanzitutto, l’elasticità nelle scelte circa il se e il come dare attuazione agli obblighi internazionali: infatti, sono sottratte a referendum solo le norme «per le quali non vi sia margine di discrezionalità quanto alla loro esistenza e al loro contenuto» (sent. n. 30/1981; 28/1993 e 27/1997).

Vale anche per le citate Convenzioni internazionali in materia di stupefacenti, che non impongono necessariamente un generalizzato divieto di coltivazione né un ricorso a pene esclusivamente detentive. La loro “flessibilità” è sancita nel documento finale dell’Assemblea Generale ONU speciale sulle droghe (Ungass 2016). Alcuni Stati che vi aderiscono – Uruguay, Canada, Malta – hanno posto fine al proibizionismo della cannabis, come già diciannove Stati USA sulla scia dei referendum in Colorado e Washington del 2012. Sintomatica, infine, è la decisione del Governo di non intervenire il 15 febbraio davanti alla Consulta, in difesa delle norme del T.U. oggetto di referendum. Avrebbe scelto diversamente, se davvero la loro abrogazione comportasse una responsabilità internazionale dell’Italia.

7. C’è anche un’altra strategia a difesa del quesito. Bocciarlo per violazione di obblighi internazionali equivale ad esprimere un giudizio d’incostituzionalità sul suo effetto normativo per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., che impone alle norme legislative di rispettarli. Ciò, però, è quanto la Corte costituzionale ha categoricamente escluso di poter fare in sede di giudizio di ammissibilità, fin dalla sua prima sentenza referendaria (n. 10/1972). Il perché è presto detto. Il suo, sarebbe un sindacato preventivo e astratto, non contemplato dall’ordinamento, su una conseguenza normativa del tutto ipotetica ed eventuale. Su basi così labili e incerte, «risulta chiaro come non possa negarsi un mezzo di democrazia diretta, quale la consultazione referendaria» (sent. n. 63/1990).

8. Certo è che l’apparato sanzionatorio del T.U. sulle droghe, da anni, è un laboratorio giuridico. Lo sa bene la Consulta, che non ha esitato a ricorrere a inediti criteri di giudizio pur di accertarne i vizi di costituzionalità. Così la sent. n. 32/2014, che dichiara l’illegittimità di talune sue norme repressive perché estranee al contenuto del decreto legge (riguardante le Olimpiadi invernali di Torino!) in cui erano state inserite. Così la sent. n. 40/2019, che giudica intrinsecamente irragionevole la pena minima di 8 anni (riducendola a 6) per reati relativi a fatti di non lieve entità aventi ad oggetto droghe pesanti. Peraltro, di entrambe è stata giudice relatore l’attuale Guardasigilli.

La campagna referendaria per la cannabis legale è l’ultimo esperimento riuscito di questo “stupefacente” laboratorio. Per la prima volta al mondo, si è svolta (quasi) integralmente online raggiungendo, in soli sei giorni, il numero di firme necessarie: alla fine, sono 612.632 quelle depositate in Cassazione. Avesse un motto, suonerebbe così: «Niente carcere per la cannabis e nessuna sanzione penale per chi la coltiva per uso personale» (il copyright è di Grazia Zuffa). In termini di politica del diritto, le azioni di giudici costituzionali e promotori convergono, segnalando l’urgenza di una riforma del T.U. del 1990 e della sua matematica del castigo, corresponsabile di un cronico sovraffollamento carcerario: il 30,8% di detenuti è dentro per violazione del suo art. 73.

9. Un’ultima nota. I referendum eutanasia e cannabis sono come gemelli diversi, e non solo perché figli di stessa madre, l’Associazione Coscioni. Per entrambi le scelte individuali prive di offensività non vanno punite, semmai governate (culturalmente e socialmente) e disciplinate in modo conforme a Costituzione. Ambedue promuovono un’idea di salute quale diritto individuale che, se non entra in conflitto con l’«interesse della collettività» (art. 32, comma 1, Cost.), ha la sua bussola nel principio di autodeterminazione. L’uno e l’altro mirano a ridurre la distanza, oggi enorme, tra norma e fatto sociale. È un idem sentire schiettamente liberale, contrario ad ogni paternalismo giuridico e al suo accessorio maglio penale. Perciò ho firmato entrambi i quesiti e desidererei votarli, Corte costituzionale permettendo.

(2- Continua)