Il comparto più penalizzato dalla pandemia
Riparte il business delle fiere, chi partecipa cresce del 13% in più
Conviene sempre fare tutti gli scongiuri possibili, ma sembra davvero che il mondo delle fiere italiane sia finalmente uscito dall’incubo della pandemia. Due anni orribili, nei quali le prolungate chiusure imposte dall’emergenza sanitaria hanno determinato un calo del fatturato anche del 70%. Dal Salone del Mobile di Milano al Vinitaly di Verona, passando per il Mido (occhiali e affini) e per il Cosmoprof (cosmesi): da febbraio 2020 in poi, oltre 180 manifestazioni sono state cancellate o rimandate. Un fenomeno che ha riguardato tutto il mondo. Secondo il Global Exhibition Barometer di giugno 2020, prodotto dalla Global Association of the Exhibition Industry (Ufi), nel mese di marzo 2020, quando il virus si è manifestato anche in Europa e America, solo il 15% delle aziende a livello mondiale ha continuato la propria attività, per poi arrivare nei mesi seguenti ad un blocco totale. Tra aprile ed agosto, infatti, oltre la metà delle aziende coinvolte ha dichiarato di non aver svolto alcuna attività.
In Italia il comparto fieristico ha vissuto un completo blocco da marzo a settembre 2020, con oltre 180 eventi annullati (di cui molti di respiro internazionale). Secondo un report di Cerved, il comparto fieristico è stato il peggiore in Italia per perdite legate alla pandemia, con cali di fatturato fino all’80% nel corso dell’intero 2020 e perdite medie del 67%. Questi numeri, tuttavia, rappresentano solo la “punta dell’iceberg” di quanto può valere veramente il settore. Per quanto riguarda l’Italia, la perdita di fatturato accusata nel 2020 dalle organizzazioni fieristiche è di circa 2 miliardi di euro. A questo va aggiunto anche l’indotto di alberghi, ristorazione e servizi accessori: secondo l’Associazione Esposizioni e Fiere Italiane (Aefi), le perdite complessive nel 2020 hanno superato i 18 miliardi di euro. E anche le riaperture sono state faticose, condizionate da regole asfissianti e da difficoltà negli spostamenti, specialmente per chi arriva dall’estero. Prima della pandemia di coronavirus, il settore fieristico italiano era capace di generare affari per 60 miliardi di euro l’anno e di determinare il 50% delle esportazioni delle imprese.
Ecco perché durante i lockdown, diverse fiere di settore hanno cercato di puntare sul digitale per tentare di limitare le perdite. Dal Marmomac di Veronafiere all’Evoo Trends di Fiera di Roma, piccoli e grandi enti fieristici hanno lanciato i loro eventi 100% digitali nei quali era possibile girare tra gli stand, sfogliare i cataloghi dei prodotti e scambiare i contatti per future relazioni commerciali. A dispetto di alcuni vantaggi – abbattimento dei costi, visibilità più ampia anche per il pubblico internazionale, forte presenza online – tutto restava, però, maledettamente virtuale. “Questo strumento può accompagnare, ma non sostituisce l’incontro delle aziende e degli operatori dal vivo”, assicurano i rappresentanti delle fiere riuniti nell’Associazione Esposizioni e Fiere Italiane. “Con buona pace di tutti coloro che ipotizzavano il superamento del modello fieristico di promozione, la fiera nella sua dimensione fisica non è stata depauperata dalle sue funzioni e nemmeno superata da quel modello digitale sperimentato durante i lunghissimi mesi di chiusura”: ne è convinto Maurizio Danese, presidente di Aefi. “Nel periodo 2012-2019 le imprese che partecipano alle fiere sono cresciute del 13% in più rispetto a quelle che non lo fanno”, ricorda Danese citando i dati del rapporto Prometeia, presentato a Roma la settimana scorsa, in occasione della 7a giornata mondiale delle fiere. “Un risultato – conclude – che ci porta ad affermare che, oggi più che mai, le fiere sono un incubatore naturale del business per i distretti industriali italiani e una leva di indotto ad alto valore aggiunto in favore dei territori”.
Sul punto, lo studio di Prometeia, commissionato da Aefi, è molto chiaro. Le fiere rappresentano un moltiplicatore di business, di turismo d’affari alto-spendente, di servizi specializzati e di posti di lavoro. Una vera e propria industria che con i soli eventi nazionali e internazionali genera un impatto sui territori – tra servizi, trasporti e ospitalità e salari – quantificabile in 22,5 miliardi di euro l’anno di produzione, per un valore aggiunto stimato in 10,6 miliardi di euro pari allo 0,7% del Pil. “I numeri che emergono dallo studio Prometeia confermano in modo lampante come la quarta industria fieristica al mondo sia prima di tutto un incubatore naturale di business per i distretti industriali italiani e poi una leva di indotto ad alto valore aggiunto in favore dei territori”, dice con soddisfazione il presidente di Aefi.
Ogni anno, infatti, le fiere mettono decine di migliaia di imprese del made in Italy a contatto con nuovi clienti offrendo loro l’opportunità di migliorare le performance sette volte di più rispetto al totale dell’economia italiana (+2% vs +0,3% la crescita media annua del fatturato dal 2012 al 2019). L’analisi d’impatto condotta su un campione di oltre 25 mila imprese espositrici (responsabili del 13% della produzione nazionale) confrontate con un panel di realtà simili che non partecipano a manifestazioni fieristiche fa emergere un vantaggio pari a 12,6 punti di crescita cumulata in più delle vendite e 0,7 punti di marginalità lorda in più, rispetto a chi non ha partecipato. Il ‘premio’ maggiore in termini di extra-crescita dell’attività va alle aziende dell’agroalimentare (+20,5%). Ma anche nei settori produttori di beni intermedi (come la meccanica) si registrano benefici superiori alla media (+14,4%). Secondo lo studio, il valore della produzione delle fiere italiane si attesta a 1,4 miliardi di euro, con 3.700 addetti diretti, circa 200 manifestazioni internazionali e oltre 220 nazionali organizzate ogni anno, per un totale di 12,6 milioni di visitatori (che salgono a 20 milioni con gli eventi locali).
Il sistema fieristico italiano (secondo in Europa dietro a quello tedesco) conserva un ruolo imprescindibile per l’economia tricolore: il comparto attiva infatti direttamente un valore della produzione pari a 8,9 miliardi di euro a cui corrispondono 4,3 miliardi di euro di valore aggiunto e 96 mila addetti, che salgono a 22,5 miliardi di produzione, 10,6 di valore aggiunto e 203 mila occupati se si considerano anche gli impatti indiretti e indotti. In altri termini, le fiere operano con un moltiplicatore di 2,4: ogni euro di valore aggiunto generato direttamente dal sistema fieristico (da espositori, organizzatori e visitatori), ne produce ulteriori 1,4 nell’economia nazionale. Con riguardo alla capacità di creare occupazione, gli effetti sono solo leggermente inferiori (qui il moltiplicatore è infatti 2,1), con ogni posto di lavoro diretto del sistema a sostenerne altri 1,1 in Italia. Emerge infine che circa il 20% del valore complessivo generato dal sistema fieristico europeo provenga dalla sfera del Made in Italy.
“Ora, per il post emergenza, il sistema punta sul rinnovamento: una fase cruciale per superare la frammentarietà attraverso alleanze strategiche fondate sui prodotti, salvaguardando i territori e il valore aggiunto realizzato sugli stessi”, conclude Maurizio Danese. Un rinnovamento che, certamente, potrà mantenere un uso più efficace delle tecnologie digitali, ma nella consapevolezza che le fiere digitali non potranno mai sostituire l’incontro fisico. Non tutti i settori si prestano infatti facilmente a un formato espositivo digitale. Per esempio, per le caratteristiche dei suoi prodotti, il comparto enogastronomico, importante componente del panorama fieristico italiano (basti pensare a Vinitaly o a Cibus) non può passare a un modello virtuale. Perfino il comparto hi-tech, specialmente quello più innovativo legato ai dispositivi di realtà virtuale, risulta fortemente penalizzato da un formato digitale: senza averli sperimentati in prima persona diventa difficile valutarne la performance.
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