Il primo ad accorgersene, fu il Giusti: “Hanno fatto nella Cina una macchina a vapore: questa macchina in tre ore fa la festa a centomila, messi in fila”. Non era realmente a vapore, ma era l’antesignano del 5G: il sospetto il concetto già nel 1852, c’era.  Poi, passa un po’ di tempo ed ecco che – di ritorno dalla Persia e, prima ancora, dal mondo dei Nativi delle Antille dove assistette al fenomeno noto come la Grande Bonaccia, e quindi dalle Indie precolombiane dove sperava nella leadership ma purtroppo lo hanno inseguito coi forconi perché faceva parte di un governo col sovranista Salvini – ecco che torna alla ribalta un certo Alessandro Di Battista.

Io, che ho seguito molto poco gli inizi dei Cinque Stelle trovandoli prodotti di scarto, ho poi faticato a capire chi cavolo fosse e perché fosse diventato famoso questo Alessandro Di Battista, al secolo Dibba, un piacione dall’elocuzione precoce che si orgasma appena parla davanti a un pubblico amante della quickly, la sveltina sudata dal pensiero breve. Perché la Cina? E che ne so. Bisognerebbe chiederlo a lui, perché è lui che l’ha detto e scritto sull’house-organ del Travaglio, che comanda i suoi soldà. Alessandro Di Battista, in previsione del vertice che si svolgerà oggi fra capi di Stato e di governo europei, è stato molto chiaro: «Abbiamo da giocare delle carte” fra cui “il rapporto privilegiato con Pechino che, piaccia o non piaccia, è merito del lavoro di Di Maio». Ed è qui che Dibba, dopo averci provato con il Che e con l’ayatollah, dopo essersi fatto sandinista e aver tentato di affiliarsi agli eredi del Farabundo Martì, si fa maoista. E prevede, – sul serio – che “la Cina vincerà la terza guerra mondiale”.

Non bisogna sottovalutare queste dichiarazioni come se venissero fuori dall’album delle figurine Panini con Feroce Saladino. Queste sono parole autentiche di un leader politico italiano che, malgrado abbia scelto di non essere in Parlamento, muove i suoi deputati e senatori e, insieme al nostro ministro degli Esteri, è totalmente sdraiato sulla Via della Seta cinese, che comprende anche l’uso del 5G molto oltre i limiti consigliati dagli Stati Uniti il cui presidente, The Donald, non cessa di ricordare nelle sue interviste e nelle sue preghiere il primo ministro italiano, ormai noto come Giuseppi, al quale raccomanda di non darla vinta ai cinesi.

Quello che mi sforzo di ricostruire non è una abborracciata partita di Risiko, in cui molti si dilettano oggi di giocare alla piccola guerra mondiale puntando ora sul virus, ora sul debito o scommettendo su caduta di Trump che – secondo il partito filorusso, o meglio amico di Putin – sarebbe il vero bersaglio della manovra cinese. Non ci impelaghiamo qui nella fanta-virologia, ma certo non sfugge, Di Battista a parte, con quale irruenza sta stato e sia ancora spolpettato e sputtanato il premio Nobel Montagnier, reo di aver rintracciato frammenti di genoma dell’Hiv nella lettura di quello del Covid19, dice lui, infilato da manine esperte per ricavare un vaccino contro l’Aids. Non divaghiamo troppo e restiamo sul Dibba. E sul fatto che sia in corso nel suo partito una resa di conti incrociata, nota ai più sottili pentastellòloghi e speleologhi della politica al tempo del disastro, fra i quali noi non vantiamo primati né specifiche competenze.

Ma questa faccenda del fronte pro-Cina contrapposto al fronte anti-Cina non sfuggirebbe neanche a un orbo e dunque la vediamo bene anche perché il prolifico – di parole – Alessandro Di Battista, ha parlato chiaro come un esperto capo indiano, e ha dissotterrato palesemente la sua ascia di guerra e ponendosi al fianco del capo Di Maio che alla Farnesina si esprime ormai in mandarino stretto, con lieve accento di Portici. Per questo schieramento col celeste, ora rosso, Impero, Dibba si è messo di traverso a quasi tutto il Pd il cui autorevole rappresentante Andrea Romano, della Commissione Esteri della Camera, ha dichiarato che «Di Battista vorrebbe fare dell’Italia il servo sciocco del totalitarismo cinese» che, se permettete, non è poco.

Questo schieramento sulla Grande Muraglia spiegherebbe meglio anche la recrudescenza dell’astio mortale fra Dibba e Matteo, nel senso di Salvini. C’era già la vecchia ruggine che aveva convinto Dibba all’esilio sudamericano durante il governo gialloverde, quando si era messo a predicare ai popoli latino-americani che però gli rispondevano a schiaffoni perché vedevano che al governo con il suo partito c’era l’odiato Salvini. Ma Salvini è, come la giovane Meloni, filorusso e abbiamo imparato in questi ultimi tempi questo curioso fenomeno: il partito filorusso italiano, ci mettiamo anche Silvio Berlusconi tanto sfottuto per il suo “lettone di Putin” sempre pronto, è un partito nettamente anti-cinese. Forza Italia è anticinese tanto quanto il Partito democratico e il nuovo assetto prossimo venturo spacca le destre italiane.

Ma, sempre per tornare al nostro affezionato Dibba, ecco che notiamo la recrudescenza del suo acne anti-salviniano quando attacca a testa bassa il leghista e la Meloni come “Dozzinali conformisti” che “si fingono populisti per racimolare consensi” e per sgretolare lo Stato centrale a vantaggio di non si sa bene quali feroci liberisti. Difficile da interpretare, e noi non siano sempre all’altezza dell’esegesi, qua ci vorrebbe uno pratico, come diceva l’esorcista allo psichiatra.

E comunque, alla katiuscia di Dibba, Salvini ha risposto – come ti sbagli – rimettendo in mezzo la Cina: «Oggi Di Battista ha detto ‘affidiamoci alla Cina’, ma io non mi fido di quella che non è una democrazia. Il virus arriva da là, non so se in maniera fortuita o per altre maniere e, guarda caso, l’economia cinese è l’unica che crescerà quest’anno». Palla al centro e rimessa in campo dell’affezionatissimo Dibba che non risponde sulla Cina ma sulle bugie che hanno le gambe corte mentre la statura di alcuni è troppo bassa e altri riferimenti che potrebbero essere recepiti al Museo dei Pesi e delle Misure di Sèvres, dove conservano gelosamente il metro in iridio platino e il chilo di ferro, preciso alla molecola.

Che cosa potremmo concludere da questi banali e curiosi fatti della cronaca? Che Dibba sia molto arrabbiato con chi è ostile alla Cina sembra un dato di fatto; che voglia fidanzarsi definitivamente con Di Maio che minaccia di essere l’unico super cinese di casa nostra anche. E quindi avanziamo, a titolo di pura ipotesi psicologica, una fottuta gelosia di Dibba per Di Maio, il nostro povero Donald Duck sfigatissimo, perché Di Maio si è messo da solo sull’ampia terrazza della Farnesina non solo per giocare a bocce con le palle d’ottone di Pomodoro, inteso come scultore, ma per dirigere il traffico degli aiuti da e per Pechino, le cartoline da Shangai, i flussi di riso cantonese e i fuochi artificiali fatti affluire da Fuorigrotta per i successivi festeggiamenti.

Stiamo dunque a vedere come butta, perché stavolta il Dibba non gioca più di struscio o di melina, ma vuole proprio toccare palla e le ultime risultanze e decisioni di francesi e americani su come rimodulare gli scambi e i rapporti di forza col rosso impero. Un vecchio amico parlamentare, dell’antico Pci, mi ha detto: «Hai visto? Noi lo dicevamo negli anni Ottanta: gli ottimisti studiano russo, ma i pessimisti studiano cinese». Dibba, povero piccolo, non era neanche nato, ma già studiava mandarino con tutta la buccia.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.