Due mesi esatti dalla rivolta dei “wagneriti”. Il volo partito da Mosca e diretto a San Pietroburgo, la vecchia Leningrado patria di Evgenij Prigozhin e del presidente russo Vladimir Putin. Il capo del Cremlino impegnato in videoconferenza al summit dei Brics in Sudafrica, in quel continente dove opera la rete della Wagner. Il licenziamento, nelle stesse ore dello schianto, del generale Sergei Surovikin, comandante delle forze aerospaziali ritenuto vicino all’ammutinamento dello “chef di Putin”.

Gli elementi intorno alla “caduta” dell’aereo di Prigozhin, precipitato con a bordo il fondatore della Wagner, il numero due, Dimitri Utkin, il rappresentante in Sudan, Alexander Totmin, e altre figure apicali della compagnia sembrano tutti condurre verso la pista della vendetta. Per molti osservatori era chiaro sin da quel misterioso 24 giugno: da quel giorno, il destino di Prigozhin era praticamente segnato. Condannato a morte per avere ferito l’immagine della Russia, della Difesa, ma soprattutto per avere colpito la leadership di Putin tradendone la fiducia. E il tradimento è una colpa che per il capo del Cremlino non può essere perdonata.

Anche la scelta di un “incidente” aereo così plateale sembra essere un messaggio: Prigozhin non doveva solo sparire, doveva essere visto sparire. Non una morte lenta né lontana ma data in pasto all’opinione pubblica, ai mercenari, ai nemici così come a coloro che erano rimasti affascinati dal leader della Wagner.

Proprio per questo l’intelligence britannica vede in quel jet abbattuto la firma di chi non solo è rimasto sempre fedele a Putin, ma che ha anche considerato da sempre Prigozhin un problema: l’Fsb. L’agenzia diretta da Aleksandr Bortnikov è una delle prime indiziate di quello che ha tutta l’aria di essere l’ennesimo regolamento di conti interno alla Russia. L’ultima resa dei conti di un sistema di potere che ha aspettato il momento in cui non solo Prigozhin appariva definitivamente corroso nella sua leadership politica, ma anche sempre più isolato dalla sua milizia di migliaia di uomini.

La Wagner è diventata in questi mesi sempre meno rilevante. Sparita dal fronte ucraino, una parte di essa si era diretta in Bielorussia, nel protettorato di Mosca guidato da Aleksander Lukashenko, dove già si parla di una base in fase di smantellamento. Il grosso dei mercenari era rimasto invece in Africa, nelle varie aree di crisi del Sahel a difesa dell’impero dello “chef”, ma con una continua perdita di personale.

Due compagnie private, Convoy e Redut, più vicine alla Difesa, hanno già iniziato a reclutare uomini della Wagner per l’Africa. E dal momento che l’assimilazione all’interno dei ranghi delle forze regolari era già partita dopo la fallita rivolta di giugno, è possibile che tanti mercenari, con la morte di Prigozhin e di Utkin, decidano di arruolarsi nell’esercito o di mettersi al servizio di una delle due compagnie un tempo rivali della Wagner. Nel frattempo, si cerca di capire cosa cambierà nella cerchia di potere del Cremlino.

Putin, come era prevedibile, nelle prime ore ha scelto il silenzio. Poi ieri le agenzie di stampa hanno lasciato trapelare alcune brevi frasi. “Era un uomo dal destino difficile e ha commesso gravi errori nella vita” ha sentenziato il presidente citato da Ria Novosti, e ha continuato parlando di risultati “ottenuti per sé stesso”, quasi a sottolinearne le colpe. L’indagine (dovuta) intanto è iniziata. Le fonti vicine alla polizia o alla Wagner concordano sull’identificazione dei cadaveri.

Ma l’alone di mistero rimane, come ovvio in queste circostanze. Qualcuno dubita che il capo della Wagner sia morto. Altri si chiedono perché un uomo abituato a vivere nell’ombra abbia deciso di volare con tutti vertici della Wagner su un solo aereo. L’ipotesi più plausibile è quella della bomba a bordo. Infine, c’è il giallo del pilota personale, Artem Stepanov, che per alcuni sarebbe il primo indiziato del sabotaggio. Di lui si sono perse le tracce e sembrerebbe fuggito in Kamchatka.

Lorenzo Vita

Autore