Un nuovo capitolo nel caso Ilaria Salis. Un capitolo fatto di una decisione, quella di respingere la richiesta degli arresti domiciliari, e di un’immagine, quella di una donna condotta in manette e a catene all’interno di un tribunale. Due elementi gravi. Indizi che fanno capire che l’Ungheria ha scelto la linea dura. Non soltanto contro la singola persona accusata, ma anche nei confronti di un intero sistema politico. Tutto ha avuto inizio nelle prime ore di ieri, quando Salis, da 13 mesi in custodia cautelare a Budapest con l’accusa di avere aggredito tre esponenti dell’estrema destra ungherese, ha fatto il suo ingresso in tribunale.

Già pochi istanti prima, l’avvocato Eugenio Losco racconta come lui e alcuni amici dell’imputata siano stati ripetutamente oggetto di minacce. “L’interprete ha tradotto le minacce con ‘vi spacchiamo la testa, vi spacchiamo la faccia’. Continuavano a guardarci con fare minaccioso mentre con i cellulari facevano foto e video”, ha raccontato il legale all’Adnkronos. “Da quanto ho capito accompagnavano una delle persone aggredite”, ha concluso. Poi l’ingresso di Salis in aula. E quell’immagine identica a quella che già a gennaio aveva provocato l’indignazione collettiva. La donna è con le manette ai polsi, scortata da poliziotti con il passamontagna e da un’agente che la tiene legata a una catena. “Una misura all’evidenza sproporzionata, lesiva della dignità umana e della presunzione di innocenza”, commenteranno gli avvocati. Dopo alcuni minuti, la decisione del giudice Jozsef Sos.

Secondo il magistrato ungherese, “esiste ancora un rischio di fuga”. Respinta quindi la richiesta di trasferimento dal carcere agli arresti domiciliari. Una scelta che per il quotidiano magiaro Magyar Nemzet è considerata naturale “per un reato di questa gravità”. Tanto più perché secondo il giudice “negli ultimi due mesi le sue condizioni personali in carcere sono migliorate”. Una tesi ritenuta totalmente infondata dai legali di Salis che, subito dopo la lettura del provvedimento, hanno impugnato la decisione del giudice. Un atto dovuto. Ma sono gli stessi avvocati ad avere ammesso che per la prossima udienza, il 24 maggio, le aspettative di un repentino cambio di rotta da parte della giustizia ungherese sono davvero poche.

“Al momento non ci sono tante speranze che questa misura possa essere cambiata, visto l’atteggiamento del tribunale. C’è il rischio, più che concreto, che si arrivi a una sentenza di primo grado con Ilaria ancora detenuta”, ha spiegato l’avvocato Losco. Uno scenario che preoccupa gli avvocati ma anche tutti coloro che in questi mesi hanno provato ad accendere la luce dei riflettori su un caso che sta assumendo, ogni giorno che passa, un peso politico sempre più rilevante.

Il governo, attraverso le parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha chiesto che il caso non sia cavalcato in senso politico. Politicizzandolo, ha detto il vicepremier, “si arriva allo scontro con la magistratura” di Budapest, “che poi è libera di decidere come crede”. “Io non condivido la scelta di condurre in carcere una detenuta con le catene”, ha continuato Tajani a “Cinque minuti”, ma “dobbiamo agire con serietà e prudenza”.

Per Ivan Scalfarotto, che ieri era a Budapest insieme ad altri rappresentanti italiani per denunciare il trattamento riservato a Salis, la politicizzazione è però un fatto già avvenuto. E questo per merito di Viktor Orban. “Catene e passamontagna sono messi lì per intimorire, per vessare il detenuto e per mandare un segnale”, spiega l’esponente di Italia Viva al Riformista. “L’Ungheria ha un approccio negativo con l’Unione europea e con lo stato di diritto. Se oggi facesse richiesta di aderire all’Ue, probabilmente non avrebbe il via libera”, ha continuato Scalfarotto. “Per Orban è una questione identitaria, deve far vedere che il suo Paese è superiore all’Ue e che chi compie un reato nel proprio territorio subisce questo trattamento. La presenza dei politici italiani e della stampa per lui è un motivo di orgoglio. Quella dimostrazione di forza con catene e poliziotti col passamontagna fatta a uso e consumo di telecamere non è casuale. C’è una voglia di umiliare il detenuto e l’Italia”.

E anche il padre di Ilaria, Roberto Salis, ha chiesto un intervento deciso del governo Meloni. “L’ennesima prova di forza del governo Orban – ha affermato Salis – Ilaria qui è considerata un grande pericolo. Il governo italiano dovrebbe fare un esame di coscienza. Le catene non dipendono dal giudice ma dal sistema carcerario e quindi esecutivo e il governo italiano può e deve fare qualcosa perché mia figlia non sia trattata come un cane”.

Ora la speranza è racchiusa in quella complessa area grigia che intreccia rapporti diplomatici e giustizia. Un gioco difficile, in cui si uniscono rapporti politici, calcoli propagandistici, rispetto del diritto interno e dei sistemi giudiziari, ma anche di quel diritto europeo che molti invocano per difendere Salis. Dal tribunale di Milano è arrivato un primo segnale. Nella causa gemella per Gabriele Marchesi, militante anarchico accusato degli stessi fatti di Salis ma che riuscì a tornare in Italia perché non identificato dalle forze dell’ordine ungheresi, la corte d’appello di Milano ha rifiutato la sua consegna all’Ungheria per il “reale rischio che sia leso uno dei suoi diritti fondamentali” e possibili “trattamenti degradanti”.

L’avvocato Straini ha detto di volere “escludere che il no alla consegna all’Ungheria di Marchesi possa, in qualsiasi maniera, influenzare il processo a carico di Salis”. Ma in questo complesso intreccio di mosse politiche e giudiziarie, non è da escludere che da Budapest possa arrivare una reazione ancora più decisa nei confronti dell’altro processo.