Tre anni prima della fatwa dell’ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie, Milan Kundera aveva celebrato in un aureo libretto le virtù di un genere letterario tipico della modernità: L’arte del romanzo (Adelphi, 1986). In particolare il romanzo rappresenta per lui l’eco della risata di Dio. Una origine teologica che le religioni monoteistiche avrebbero qualche difficoltà ad approvare: l’immagine stessa di Dio che ride ne verrebbe giudicata impropria o perfino blasfema. Eppure questa immagine è il migliore antidoto contro qualsiasi cupo, dogmatico, austero integralismo (religioso o in generale ideologico).

Ci ricorda una verità fondamentale: la nostra povera condizione – ilarotragica – non può che smuovere il riso del suo stesso creatore, e mal sopporta liturgie troppo seriose. È bene ricordarlo nel momento in cui Rushdie ha subito una aggressione brutale (solo per un soffio senza esito mortale), con ogni probabilità premeditata, da un americano arabo che ha voluto eseguire la celebre fatwa, rinnovata dall’imam Khamenei nel 2019, e mai ritirata dalle autorità religiose dell’Iran (i media popolari di quel paese hanno festeggiato in questi giorni l’aggressione stessa!). Ma quale fu la colpa imperdonabile di Rushdie, pubblicando i Versetti satanici? Non semplicemente di aver scritto un libro che dissacra l’islam e la figura di Maometto. Di saggi, pamphlet, manifesti, articoli, etc. contro l’islam, anche molto più blasfemi, ce ne sono a centinaia. Piuttosto: di aver scritto un romanzo in tal senso.

Il genere del romanzo, che nasce con Don Chisciotte nel ‘600 (anzi un tantino prima con Rabelais), e poi fiorisce in Inghilterra nel ‘700, non solo mescola stili opposti ma si alimenta di molteplici eredità e innesti: Dialoghi di Platone, Vite parallele di Plutarco, satira menippea, romanzo greco di età ellenistica (riscoperto nel ‘500) e romanzo latino (Satyricon), racconti picareschi e cavallereschi, tradizione epica e comica, e ovviamente narrazioni orientali (specie India, Cina e Giappone, dove il Genij monogatari nell’XI secolo è da alcuni considerato il primo vero romanzo dell’umanità). Fin dall’inizio, sottolinea Kundera, afferma l’ironia come unica relazione possibile con un mondo sfaccettato, plurale, spesso inafferrabile, che non va tanto giudicato quanto esplorato, indagato nella rete infinita delle sue possibilità. Un mondo fatto non di una verità unica ma di tante verità tra loro contraddittorie e incompatibili.

Ora, a differenza di un saggio – e perciò I versetti satanici erano un’opera “irricevibile” per gli ayatollah – un romanzo non si limita a discutere e commentare le idee, ma ce le mostra in situazione, sempre incarnate in personaggi, in destini concreti, in storie. Non ci dice solo che quel tale ha quella visione del mondo, ma ci fa vedere, tangibilmente, come vive quel tale, come mangia, fa l’amore, sogna, educa i figli, esorcizza la morte. Introduce un dubbio, sottile ma potenzialmente deflagrante, nell’esistenza che noi facciamo. Ci chiede se il nostro stile di vita sia basato sull’autoinganno, sulla menzogna, sul tradimento di sé. Ci propone sempre nuovi punti di vista, nuove, dissonanti verità. In questo senso è davvero l’autocoscienza laica della allora nascente borghesia (per Hegel l’equivalente borghese dell’epica) e si trova anche all’origine della democrazia.

Sappiamo anche che il romanzo occidentale si è poi diffuso in tutto il mondo – anche attraverso guerre di rapina e colonialismo, s’intende – diventando una forma simbolica planetaria, ma in tale diffusione si è spesso fuso con tradizioni narrative locali, riuscendo a innovarsi creativamente (è un genere costituzionalmente spurio, flessibile, meticcio), tanto che negli ultimi decenni i romanzi più interessanti sono venuti dall’America Latina, dall’Asia e dall’Africa. Insomma la fatwa iraniana ci ricorda che il romanzo è un genere letterario sovversivo. Ce ne eravamo dimenticati!

Ma a proposito dell’aggressione a Rushdie si pone per le democrazie occidentali una questione delicata, che riguarda il cosiddetto paradosso di Popper (La società aperta e i suoi nemici, del 1945): i tolleranti hanno il diritto di essere intolleranti con gli intolleranti quando è in gioco la propria sopravvivenza? può una società aperta difendere sé stessa con mezzi tipici di una società chiusa, senza perciò snaturarsi?. Per Popper la libertà individuale – di pensiero, parola e azione – è il fondamento della società, ma non può diventare un assoluto (neanche la libertà del mercato può esserlo). Si pensi al cosiddetto hate speech (parole di incitamento all’odio) largamente presente in Rete: deve essere regolamentato, e censurato, dalle stesse piattaforme dei social o dall’autorità pubblica? Dove mettere il limite alla libertà di espressione? Nel caso di Rushdie pare evidente: quando una parola promuove direttamente violenza non dovrebbero esserci dubbi sulla opportunità di limitarla.

Ora, verosimilmente nessuno stato etico può obbligare i singoli islamici residenti in Italia a condannare la fatwa, pena l’espulsione: sarebbe una ingerenza abusiva e autoritaria. La coscienza individuale è inviolabile. Però le comunità islamiche – organizzate, strutturate nei propri luoghi e nei propri organi di rappresentanza, etc. – sono un soggetto collettivo, costituiscono un momento di razionalità pubblica. E se si chiedesse loro (e anzi si pretendesse!) una presa di posizione netta, una condanna inequivocabile della fatwa? Si tratterebbe di un importante gesto simbolico. Dimostrerebbe che, al di là di differenze religiose, etniche, culturali, etc., l’umanità è pur sempre unita da un codice di valori comune e “universale”.

Credo infine che uno strumento indispensabile di mediazione culturale sia offerto proprio dal romanzo. Proviamo a leggere gli innumerevoli romanzi contemporanei del mondo arabo ( a volte declinati in senso lirico-elegiaco, fiabesco, altre volte calati ruvidamente dentro le nevrosi contemporanee): ci presentano un islam molto eterogeneo, differenziato, in alcun modo riducibile all’integralismo. Chissà che il genere del romanzo, pur nato in Europa – ma non prerogativa dell’Europa (ai suoi albori, come prima accennavo, se ne trovavano tracce ad ogni latitudine: la nostra cultura ha solo accelerato un processo di formazione) – possa diventare il vero terreno comune. La democrazia non si può esportare, l’abbiamo capito. Però possiamo esportare e importare romanzi, con la loro rappresentazione sempre polifonica, ironica, problematica della complessità umana. Per parafrasare una celebre frase di Dostoevskij, ormai finita su T-shirt e spot pubblicitari: solo il romanzo ci salverà!