È chiaro l’imbarazzo nello scoprire che Giovanni Falcone è divenuto un formidabile testimonial della separazione delle carriere. Non è facile, infatti, per chi oggi demonizza tutti i sostenitori di questa riforma, trovarsi faccia a faccia con i suoi scritti e con le sue interviste, dotate di una forza argomentativa e di una chiarezza senza pari. Se si ragionasse in maniera laica, si potrebbe certamente dire: “Pazienza! Su questo Falcone sbagliava… per tale e tal altra ragione”. Ma si tratta di una strada che non è più possibile percorrere. Come si legge sorprendentemente nella mozione finale dell’ultimo Congresso dell’Anm, l’unitarietà delle carriere è presentata come un attributo addirittura “ontologico”.

Falcone deve essere esorcizzato

La difesa dello status quo assume qui profili metafisici: l’unitarietà è un “dogma” e chi lo nega un “eretico”. Un assunto che piuttosto che da un moderno congresso di magistrati sembrano uscire da un concilio di teologi medievali. Ovvio, in un simile contesto, che la posizione di Falcone non possa essere gestita laicamente. Verrebbe meno la coerenza di questa costruzione ideale nella quale non ci sono contraddittori, ma solo nemici della democrazia e attentatori all’indipendenza della magistratura. È per questo motivo che Giovanni Falcone deve essere tirato fuori dalla sua pelle, deve essere esorcizzato: non ha mai scritto nulla, né si è mai espresso in favore della separazione delle carriere! Confidandosi all’epoca con i suoi amici e colleghi Ajala, Morvillo e Grasso e quanti altri, mai aveva fatto cenno a simili assurde ed eretiche posizioni.

Il codice Vassalli

Vediamo allora di cosa esattamente si tratta andando alla ricerca di quelle fonti contestate che risalgono agli anni del varo del codice “Vassalli”. Scriveva Giovanni Falcone nel 1988 a proposito dei necessari adeguamenti ordinamentali imposti dal quel nuovo modello: “Altri interventi, però, sono necessari sul piano legislativo e di ciò le forze politiche e sociali cominciano ad acquisire piena consapevolezza”, “bisognerà valutare se e in quali limiti l’obbligatorietà dell’azione penale e l’unicità delle carriere dei magistrati, inquirenti e giudicanti e la stessa appartenenza del PM all’ordine giudiziario siano compatibili con il nuovo sistema. Mi rendo conto di accennare a temi di grave portata e su cui ancora l’analisi è appena agli inizi ma trattasi di questioni aperte che non verranno risolte semplicemente esorcizzandole o, peggio, muovendo da posizioni preconcette o corporative” (Atti del Convegno “Un nuovo codice per una nuova giustizia”, 8 ottobre 1988).

Il bisogno di un giudice terzo, e la separazione delle carriere

Non solo Giovanni Falcone evocava già la necessità di un giudice “terzo ed imparziale”, denunciando la natura di “organo indubbiamente spurio” del pubblico ministero nel suo attuale assetto nel quale “viene chiamato parte-imparziale” e chiedendosi come si possa “essere parte ed essere imparziale allo stesso tempo, vorrei che qualcuno me lo spiegasse”, ma, intervenendo in quello stesso periodo ad un convegno di Mondo Operaio, ancora Falcone affermava, a proposito del nuovo codice che di lì a poco sarebbe entrato in vigore, come “inevitabilmente per il suo funzionamento occorre una profonda trasformazione dell’ordinamento giudiziario e non è pensabile né logicamente plausibile in un codice che accentua vistosamente le caratteristiche di parte del PM pensare che le carriere dei magistrati, del pubblico ministero e quelle dei giudici potranno rimanere ancor a lungo indifferenziate” (Convegno Mondo Operaio del 28 luglio 1988, archivi di Radio radicale).

La valutazione

Ma non basta, in maniera altrettanto chiara scriveva Giovanni Falcone qualche anno dopo: “Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del Pubblico Ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere”, denunciando come “l’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della Magistratura” (Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, Interventi e proposte, 1982/1992, p. 179). Non valutava, dunque, la sola questione della differenziazione delle funzioni, bensì la necessità di separare le due carriere.

La prova del nove

Ma per chiudere ogni possibile equivoco vale la pena di citare infine anche l’intervista di Mario Pirani a Giovanni Falcone, nella quale il magistrato spiega come nel nuovo modello accusatorio il pubblico ministero “non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere come invece è oggi è, una specie di para-giudice”. Nel nuovo sistema “il giudice si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’esecutivo” (La Repubblica del 3 ottobre 1991).

Sono questi i documenti, che attendono di essere smentiti, che nessun dubbio lasciano circa il fatto che Giovanni Falcone rivendicasse pubblicamente, con buona pace di chi ostinatamente lo nega, il suo personale favore alla separazione delle carriere. C’è dunque da chiedersi come mai i suoi colleghi e confidenti – con tutto il rispetto possibile – non gli dessero del matto e non denunciassero a loro volta pubblicamente quel suo reiterato e ostinato deragliamento, così contrario al contenuto di quelle confidenze di cui erano destinatari. Si tratta di una operazione davvero disinvolta che tuttavia svela la natura di retroguardia della difesa dello status quo. Un assetto ideologico e culturale che ricorda quella “unità spirituale” della magistratura evocata dal Dino Grandi a proposito del suo Ordinamento giudiziario del 1941, che si risolve in una ostinata riaffermazione di quell’assetto ordinamentale autoritario oramai vistosamente contrario alla modernizzazione del nostro processo. Quanto basta insomma per comprendere che dietro a questa chiusura corporativa, travestita da battaglia per l’indipendenza e la democrazia, si nasconde la difesa di un potere castale e che investe purtroppo anche la memoria di Giovanni Falcone che dovrebbe essere invece rispettata assieme alle sue opinioni.