“Non nel mio nome”, avrebbe detto Giovanni Falcone. Il magistrato assassinato da Cosa Nostra avrebbe avuto in orrore il fatto che, nelle celebrazioni del trentennale della sua morte, si accendessero, nel suo nome, guerre di religione con crociati pronti a uccidere invocando un qualche dio. Non avrebbe apprezzato, lui che ha sempre negato l’esistenza del terzo livello della mafia, quei professionisti dell’antimafia in toga –capostipite Nino Di Matteo- che raccoglievano applausi citando i nomi di Andreotti e Berlusconi.

E ancor meno si sarebbe entusiasmato, lui sempre così rispettoso nei confronti delle istituzioni, sull’uso politico che del suo nome veniva fatto, con la messa alla gogna del candidato non gradito. Già, perché a Palermo il 12 giugno si vota per la successione a Leoluca Orlando, che pareva eterno nella sua carica di sindaco. E ci sono i politici di sinistra, con tutto il loro entourage di giornalisti coccodé, che paiono impazzire all’idea di un possibile cambiamento di regime. In questo sciagurato caso, vorrà dire che al posto di un antimafioso ci sarà un mafioso. Lo dicono nel nome di Giovanni Falcone. Un incontro di magistrati “antimafia” si è svolto, quasi in competizione con le celebrazioni ufficiali del 23 maggio, al teatro Golden di Palermo su iniziativa della rivista “Antimafia duemila”. I nomi sono da parterre de roi: oltre al consigliere Di Matteo, il suo collega del Csm Sebastiano Ardita, e poi l’ex procuratore generale Roberto Scarpinato, il pm di Firenze Luca Tescaroli, titolare delle indagini sui presunti mandanti delle stragi del 1993, e il procuratore calabrese Giuseppe Lombardo, un altro “antimafia” doc per l’inchiesta sulle relazioni ‘Ndrangheta-Cosa nostra.

Non manca proprio nessuno. Sono uomini delle istituzioni e dovrebbero avere un moto d’orgoglio e allontanarsi subito da un cartello che li ha convocati sotto il titolo “Fuori la mafia dallo Stato”. Giovanni Falcone si sarebbe tenuto lontano da quel titolo e da quel teatro. Nulla da dire sul fatto che questo gruppo di magistrati abbia preferito disertare quello che Nino Di Matteo ha definito “lo sterile esercizio di una stucchevole retorica di Stato” e Scarpinato (che il quotidiano La Stampa nella cronaca definisce “commosso”) “una falconeide sedativa da corriere dei piccoli”. Applauso dunque a queste toghe così schive, che preferiscono ricordare lontano dai riflettori il loro collega assassinato dalla mafia. Però quel titolo “fuori la mafia dallo Stato”, da nessuno contestato, dice in modo esplicito che ancora oggi, non solo ai tempi di Ciancimino, le istituzioni (anche la magistratura?) sarebbero inquinate da complicità mafiose.

Vien da chiedersi quindi se questi procuratori ne siano veramente convinti e sulla base di quali elementi. O sono tutti pasoliniani dell’ “io so, ma non ho le prove”? Certo, non ci tranquillizza il ragionamento di Nino Di Matteo nei confronti del Parlamento e del Governo, impegnati nella “riforma Cartabia” sulla giustizia. Ma poco rispettoso anche verso la Corte Costituzionale e gli organismi di giustizia europei. “Falcone –ha detto, sempre nel suo nome- è stato tradito e ucciso da quelle istituzioni che in queste ore hanno partecipato al gran gioco delle finte commemorazioni e domani, tornate a Roma, riprenderanno a lavorare per smantellare pezzo dopo pezzo le leggi antimafia da lui ispirate, 41 bis ed ergastolo ostativo”. E “voteranno una riforma…”.

“Non nel mio nome!”. Questa volta lo griderebbe, Giovanni Falcone. Non solo per la mancanza di rispetto istituzionale, ma anche perché le leggi di cui parla il consigliere Di Matteo, in parte sono diverse dai principi da lui ispirati, e in altra parte sono state votate dopo la morte del giudice assassinato. La due giorni di celebrazioni che è alle nostre spalle ha lasciato sul terreno, come unica vera vittima, proprio il nome di Giovanni Falcone. Ma c’è stata anche una vittima collaterale, il povero professor Roberto Lagalla, stimatissimo rettore emerito dell’Università di Palermo ed ex assessore regionale, che pare avere come unica (quella vera) “colpa”, quella di essere il candidato del centro-destra al ruolo di sindaco come successore di Leoluca Orlando, cioè proprio di colui che accusò Falcone di nascondere nei cassetti le prove della mafiosità delle istituzioni, il terzo livello, insomma.

Dovrebbero ricordarsene gli uomini della sinistra, prima di avere la pretesa di fare gli esami del sangue sul tasso di mafiosità al candidato Lagalla a causa del sostegno politico manifestato nei suoi confronti da Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri. E dovrebbero apprezzare il fatto che uno stimatissimo giurista come Giovanni Fiandaca, che fu candidato del Pd alle europee, abbia ammonito che i due esponenti politici, avendo scontato la loro pena (Cuffaro per fiancheggiamento, e Dell’Utri per concorso esterno alla mafia) “hanno tutta la libertà di continuare a impegnarsi politicamente”. Non lo apprezzano per niente il direttore de La Stampa Massimo Giannini, che impegna due cronisti oltre alla propria prestigiosissima penna e la prima pagina del quotidiano per denunciare quella “sedia vuota” lasciata, nella manifestazione ufficiale, dal professor Lagalla, dopo che il giorno prima era stato redarguito da Maria Falcone ma poi insultato dal regista Pif e trattato come un mafioso. E lasciamo perdere il titolo de La notizia, che essendo la brutta copia del Fatto quotidiano deve spararla grossa per farsi ascoltare: “Se la mafia vive di segnali, il candidato del centrodestra a Palermo, non celebrando Falcone, gliene ha dato uno chiarissimo”. Non nel mio nome, per favore. Non nel nome di Falcone.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.