Md fa a pezzi le bugie sulla riforma della giustizia
Gratteri e i pm pistoleri smentiti dall’antimafia ‘di sinistra’: le balle dei giustizialisti sulla riforma Cartabia
Reggio Calabria contro Catanzaro. Magistratura Democratica contro Gratteri. Ma anche versus De Raho e contro tutti i procuratori pistoleros che sono la passione di Marco Travaglio e i cronisti-megafono delle procure, quelli che campano divulgando le scartoffie dei pm. È colpa di queste toghe mediatiche ed esibizioniste se la riforma Cartabia non ha mantenuto le promesse. Anzi, la responsabilità è della ministra che ha ascoltato più Gratteri che noi. Già, vien da domandare, ma “voi” dove eravate mentre il procuratore Gratteri e tanti come lui strillavano che sarebbero andati a casa i mafiosi se fosse passata la “schiforma” “salvaladri”?
Cinzia Barillà, giudice di corte d’appello, e Stefano Musolino, pm della Dda reggina, sono i nuovi vertici di Md, presidente e segretario. Sono stati eletti al congresso di Firenze nello scorso mese di luglio, proprio nei giorni in cui la Camera votava, con la fiducia al governo Draghi, la riforma Cartabia. Li ha intervistati nei giorni scorsi, in un colloquio a tre, Andrea Fabozzi sul Manifesto. Sono arrabbiati e delusi, considerano le nuove norme sulla prescrizione un’occasione mancata. Avrebbe potuto segnare una svolta, dicono, «così da costringere anche la magistratura a cercare strumenti alternativi alla sanzione penale e al carcere». Sembrano voci arrivate da una sorta di oltretomba mediatica, lontani dal coro violento e sfacciato dei protagonisti in toga che, unici nell’agone politico, hanno cannoneggiato la proposta di riforma finché la loro voce, reazionaria e conservatrice, non ha trovato quello spazio nelle norme che le ha poi asfissiate.
È un po’ tardi forse oggi per puntare il dito contro “il magistrato individualista”, quello “molto bravo a instillare le paure”, quello “che non fa il bene della magistratura”. E anche ricordare –lo abbiamo fatto in tanti- quel gioco mediatico messo in campo da alcuni pm, che non dicono che “se ci sono procedimenti al riparo dell’improcedibilità, sono proprio quelli per mafia la cui definizione è nella quasi totalità dei casi garantita dalle norme sulla custodia cautelare”. Noi lo sappiamo, hanno cercato di dirlo il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza e tanti avvocati. E pochi giornalisti. Ma non l’hanno detto i magistrati. Toccava a loro contraddire i Gratteri vocianti.
Ora lo esplicitano due importanti toghe di sinistra.
Sarà perché sono due magistrati calabresi, e reggini in particolare, sarà perché sono di un’altra parrocchia politica, fatto sta che Cinzia Barillà e Stefano Musolino hanno dato una bella sistematina al loro collega di Catanzaro, Nicola Gratteri. E insieme a lui anche al capo dell’antimafia Federico Cafiero De Raho, tanto sta per andare in pensione. Tutti e due avevano sbeffeggiato la riforma Cartabia con una battuta alla Davigo: con queste norme diventa conveniente delinquere, avevano detto. Era una falsità, e anche una vigliaccata ipocrita. Perché loro per primi, gli eroi dell’antimafia, non possono non sapere quello che dicono oggi con semplicità i due esponenti di Md, uno dei quali, Musolino è a sua volta della Dda.
In realtà lui e la collega Barillà ce l’hanno un po’ con tutti, e con qualche ragione. Sui contenuti, perché il testo della Commissione Lattanzi, cioè il punto di partenza della riforma, era decisamente meglio della normativa finale, quella intrisa di contentini più che al Movimento cinque stelle, proprio alle toghe più in vista. Ma soprattutto perché la mediazione politica che ha portato al voto di fiducia alla Camera, pareva tener conto più delle tante vociferazioni a sproposito uscite dalla bocca delle toghe che dei diktat delle segreterie di qualche partito. In realtà il partito è uno solo, e dal punto di vista della giustizia è molto petulante, più che potente. E soprattutto lo è il vero capobanda, quello che finge di dirigere un giornale invece che un movimento, e che ha martellato per settimane chiamando la riforma Cartabia, sempre “schiforma” e “salvaladri” , con un neppur troppo sottile riferimento alla proposta di modifica delle norma sulla custodia cautelare proposta nel 1994 dal ministro Alfredo Biondi del primo governo Berlusconi.
Il partito è uno solo, ma è quello che aveva espresso nei precedenti due governi il ministro guardasigilli. E allora, se vogliamo proprio mettere i puntini sulle “i”, il problema è un po’ diverso da come viene posto dai vertici di Md. La giudice Cinzia Barillà per esempio lamenta il fatto che nelle audizioni volute dalla ministra si siano valorizzate maggiormente le famose “individualità molto capaci di sollecitare le paure”, piuttosto che cercare “un’interlocuzione con chi esprime un pensiero collettivo”. Lasciando perdere per un attimo le perplessità sulla storia, recente e antica, del “pensiero collettivo” del sindacato, e anche della casta, dei magistrati, e i danni non ancora rattoppati, vorremmo ricordare le origini del fuoco di fila con cui fu bersagliata la guardasigilli Cartabia non appena aveva messo il piede al ministero.
Hanno sparato a vista, chiudendola in una sorta di tenaglia, non solo i pubblici ministeri alla Gratteri, ma anche per esempio una famosa icona di Magistratura democratica come l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, forte della sua reputazione di storico magistrato “antimafia”. E vogliamo ricordare delle toghe napoletane, che tra l’altro, insieme a quelle romane e a quelle reggine, risultano le meno efficienti nello smaltimento delle cause? Un bel combinato disposto tra il presidente di corte d’appello Giuseppe De Carolis e il procuratore generale Luigi Riello. Non a dire, come sarebbe stato loro dovere, che si sarebbero impegnati al massimo per applicare al meglio la riforma, magari chiedendo giustamente un po’ di personale in più, ma piuttosto a gettare l’allarme. E la grida manzoniana era che con quella riforma sarebbe finito in fumo il 50 per cento dei processi, insieme a tutti i maxi di Gratteri e di quelli come lui. Quelli mediatici e individualisti, appunto.
Il dottor Stefano Musolino, che è uno di quei pm che si fanno chiamare “antimafia”, dice parole che ricordano quella parte gloriosa della vecchia sinistra di Md che era veramente garantista: «Finché regge l’idea che la risposta ai problemi del paese vada cercata sempre nell’azione penale, avremo sempre un certo numero di procuratori in vista pronti a raccontarci che senza un pm forte e una pesante sanzione penale le cose non funzionano». È anche il punto di vista, e anche la direzione imboccata dalla riforma Cartabia con i percorsi riparativi, anche se insufficiente, come viene fatto notare nell’intervista, sulle misure alternative al carcere. Ma la rivolta –un colpo di Stato, l’abbiamo chiamato noi, come se si fossero mossi i generali di Pinochet– è stata molto generalizzata, negli ambienti dei vertici “antimafia”, e del resto non si sono sentite molte altre voci dissonanti, se si eccettuano gli ex procuratori Armando Spataro e Carlo Nordio.
Ma quante interviste rilasciava nel frattempo Giancarlo Caselli, che dichiarava senza timore che si trattava di un “accordo cerchiobottista” e che era “meglio la Bonafede”? Anche l’antimafia di Milano, ormai orfana di Ilda Boccassini (che quanto meno sapeva stare zitta e non concedeva interviste), non è rimasta indietro nel tiro al bersaglio. Alessandra Dolci, procuratore aggiunto a capo della Dda, definisce la riforma una sostanziale amnistia, fatta apposta per “mandare al macero migliaia di processi”. Anche gli imputati mafiosi potranno godere dell’improcedibilità, dice in un’intervista al Fatto quotidiano, e a chi, se no? Naturalmente nessuno di questi pm ricorda che il 60% delle prescrizioni matura prima dell’udienza preliminare e che ogni tanto anche qualche piccola parola di autocritica sarebbe gradita all’opinione pubblica.
Ma sono state queste le parole che hanno inquinato. Mettiamole tutte insieme poi posiamole sul piatto della bilancia, quella della giustizia. Che cosa pesa dall’altra parte? Quasi il nulla. Ben venga l’intervista a Barillà e Musolino, dunque. Ma è un po’ come quando sentiamo il ritornello che la maggior parte dei magistrati è fatta di professionisti molto bravi e molto democratici e molto garantisti, eccetera. Peccato che però che quelli che strillano e sanno farsi ascoltare siano altri, proprio come Gratteri. Che sta a Catanzaro e non a Reggio Calabria.
P.S. L’anonimo corsivista del Fatto Quotidiano che si appella “Lo sberleffo” lamenta che i due esponenti di Md abbiano osato parlare di Nicola Gratteri senza pronunciarne il nome. Quasi non fosse citato abbastanza sul suo quotidiano di fiducia. Il nome lo abbiamo fatto noi, contenti per il vostro cocco?
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