Lo scontro sulla riforma Cartabia
Follia a 5 Stelle, la Dadone minaccia le dimissioni ma resta sola e fa dietrofront

Come un formicaio su cui è passato sopra un trattore: confusione, smarrimento, e ora che succede, e ora che facciamo, soprattutto dove andiamo. Così è sembrata la Camera dei Deputati, ieri, il giorno dopo la scelta di Draghi, e di tutto il governo che l’ha approvata, di mettere la fiducia sulla riforma del processo penale. Che sta diventando, come era ovvio, il laboratorio per sperimentare la reale capacità e volontà del Parlamento di procedere con la messa a terra del Pnrr, dei progetti ma soprattutto delle riforme.
Gli effetti del “trattore”, cioè il pragmatismo di Draghi, hanno coinvolto indirettamente anche il Csm e il Quirinale che non è riuscito a festeggiare tranquillo gli 80 anni del Presidente Mattarella. Che ha iniziato la giornata inviando al premier e ai Presidenti di Camera e Senato una lettera per dire che non firmerà più decreti Omnibus (come l’ultimo Sostegni). Tra le righe si legge l’invito all’ordine e alla disciplina, senza alzate di ingegno. Non solo: il Presidente della Repubblica non ha dato l’assenso all’ordine del giorno del plenum di palazzo dei Marescialli dove il Movimento 5 Stelle ha cercato di far scattare una vera manovra a tenaglia per bloccare la riforma Cartabia.
Così come martedì, in zona cesarini, la Commissione Giustizia della Camera ha autorizzato l’audizione del procuratore antimafia Cafiero De Raho e del procuratore di Catanzaro Gratteri per mettere nero su bianco il loro j’accuse contro la riforma, il presidente della Sesta Commissione del Csm, il laico grillino Gigliotti ha insistito per dare il parere, non richiesto dal Guardasigilli, sulla riforma. Non su tutto il testo, però, solo sugli articoli che riguardano la prescrizione e la improcedibilità dei processi in Appello e in Cassazione che per i 5 Stelle sono il via libera per creare «sacche di impunità con la morte di almeno 150 mila processi». Il voto in Sesta commissione parla da solo: quattro favorevoli, il laico Gigliotti, i togati Zaccaro e Chinaglia (Area) e Ardita (ex Davigo). Due le astensioni: Miccichè (Mi) e Lanzi (Fi). È prerogativa del Capo dello Stato, che del Csm è il numero uno, approvare e respingere l’ordine del giorno. Mattarella ha scelto questa seconda opzione invitando il plenum ad esprimersi ma su tutto il complesso delle norme che formano il pacchetto Cartabia.
Il “disordine” e lo “smarrimento” sono stati tangibili alla Camera dove si votava la fiducia sul decreto Semplificazioni (anche qui voti contrari di un paio di 5 Stelle). La mossa della fiducia preventiva ha fatto saltare i già precari equilibri. Nel Movimento ma anche nel Pd. Per motivi diversi. La fiducia è stata approvata giovedì all’unanimità nel Consiglio dei ministri dove siedono quattro ministri 5 Stelle: Di Maio, D’Incà, Patuanelli, Dadone. Conte era stato informato della decisione qualche minuto prima direttamente da Draghi. E di sicuro la notizia non lo ha rallegrato. «Non accetteremo di superare certi limiti, no a sacche di impunità» aveva detto Conte. Ora deve accettare la fiducia. Non pervenuti gli altri ministri. Il silenzio è d’oro in certi momenti soprattutto se, come Draghi e Cartabia hanno ripetuto, «siamo sempre disponibili a modifiche tecniche migliorative»
Il problema è che ieri mattina la ministra Dadone, intervistata ad Agorà estate, ha dichiarato che «l’ipotesi delle dimissioni dei ministri 5 Stelle è sul tavolo se non si troverà l’accordo». Per conto di chi ha parlato la ministra che, da quello che risulta, non ha fiatato durante Consiglio dei ministri? Chi rappresenta? Quanti la pensano come lei? Domande che sono frullate tutto il giorno tra il cortile e i corridoi di Montecitorio dove i deputati 5 Stelle erano divisi in capannelli da dove filtrava fastidio per l’uscita di Dadone (che ha ritrattato in serata con il classico: «Sono stata fraintesa, non è nel mio stile minacciare alcunché») e per la «totale mancanza di confronto tra i deputati e il livello decisionale». Cioè Conte. C’è chi sta facendo due conti e mostra foglietti con una trentina di deputati che non voteranno la fiducia alla riforma Cartabia.
Non che i deputati Pd ieri abbiano mostrato più lucidità degli alleati 5 Stelle. Anzi. Da una parte l’irritazione, più condivisa del solito, per l’anarchia 5 Stelle: «Non è possibile che una ministra in carica minacci le dimissioni in un momento così delicato» il refrain. «Infantilismo politico» lo ha bollato l’eurodeputata Picierno. Subito dopo la domanda: «Cosa sta facendo Conte?». Il terrore di aver sbagliato tutto è evidente: «Ci stiamo schiacciando ancora una volta sui 5 Stelle però neppure loro sanno chi sono oggi e cosa diventeranno». Dall’altra parte c’è Salvini a cui ogni giorno viene uno sturbo per i sondaggi favorevoli a Meloni. Il Pd nel mezzo a sostenere convintamente il governo Draghi. Peccato che ci sia da vincere anche le elezioni di ottobre, altrimenti chi potrà tenere un partito più diviso che mai? Insomma, ieri ha ripreso forma e vigore quella parte del Pd che chiede da un pezzo di lasciar perdere Conte e i 5 Stelle. Al Nazareno ce l’hanno un po’ anche con Draghi e con il suo pragmatismo-decisionismo che non sarà, come ha promesso, in alcun modo attenuato durante il semestre bianco. Per contro, un altro pezzo di Pd «gode da morire per il decisionismo di Draghi». Ieri sera si è fatto sentire Letta che confida «nel voto di fiducia di tutta la maggioranza».
La fiducia agita il centrosinistra. Ma anche il centrodestra che ieri, per non essere da meno rispetto alle bandierine dei 5 Stelle, ha pensato bene di chiedere unito (Fi, Fdi, Lega) un’ampliamento del perimetro della riforma Cartabia estendendola alla riforma dell’abuso d’ufficio. «Una mossa dilatoria che vuole impedire l’approvazione del testo entro l’estate» ha denunciato Bazoli, responsabile Giustizia Pd. Allora s’è fatta sentire la Lega: «Noi siamo responsabili, vogliamo restare nel governo ma siamo anche molto irritati con 5 Stelle che minacciano sfracelli sulla Giustizia e il Pd che vuole più tasse e il ddl Zan senza modifiche». In questo clima, è partita comunque la trattativa.
In via Arenula, al ministero della Giustizia, la delegazione 5 Stelle formata dal sottosegretario Anna Macina e dalla capogruppo in commissione Giustizia Giulia Sarti, Conte sovrintende da remoto, sta cercando di trovare la quadra con la ministra Cartabia. Il Pd ha indicato la mediazione con i suoi 19 emendamenti (lodo Serracchiani). L’ipotesi più accreditata è alzare il tetto per i processi d’Appello (prima della dichiarazione di improcedibilità) a tre anni per tutti i reati (a quattro per i reati più gravi) e a un anno e mezzo in Cassazione. Non se ne parla, invece, di mettere i reati contro la Pa sullo stesso piano di quelli di mafia e terrorismo.
Tutto questo almeno fino al 2024 quando si potranno iniziare a vedere gli effetti degli altri interventi previsti per agevolare il compito dei giudici: l’ufficio del processo, un manager che regola il traffico di udienze, scadenze e ferie; il nuovo personale addetto alla digitalizzazione e alle cancellerie (16 muovi ingressi compresi nuovi magistrati) e tutte le altre norme che dovrebbero avere effetto deflattivo sui giudizi di secondo e terzo grado. E ridurre la vera sacca di impunità: il 70 per cento dei reati si prescrive prima della sentenza di promo grado. Ma di questo l’ex riforma Bonafede non si è occupata. Lo sta facendo l’attuale Guardasigilli. Se riuscirà ad arrivare in porto.
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