Alfonso Giordano, scomparso ieri all’età di 92 anni, non era un magistrato qualunque. Era stato il presidente della Corte che aveva visto istruire le accuse dal pool antimafia e governato la celebrazione dell’intero, gigantesco Maxi Processo di Palermo, il colpo al cuore di Cosa nostra entrato nella storia come più esteso processo penale italiano. Dopo averlo presieduto con tale maestria da aver costruito sentenze che ressero fino al terzo grado di giudizio – merce diventata poi rara, tra i magistrati – è stato presidente della Corte d’appello di Lecce, poi della Corte d’Appello di Palermo, dove ha terminato la sua carriera di magistrato. È stato Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione ed è stato insignito, subito dopo il pensionamento, da parte del Capo dello Stato della onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana. Alle elezioni comunali di Palermo del 21 novembre 1993, si candidò a sindaco della città con l’Unione di Centro, risultando terzo con oltre 23.000 voti, dopo Leoluca Orlando ed Elda Pucci.

Era asettico alla polemica ma fermo nelle ragioni della sua profonda competenza del fenomeno mafioso. E quando la Rai pretese di trasformare quasi in fiction nazionalpopolare le ombre cinesi della cosiddetta “Trattativa Stato-mafia” che tanto appassionano qualche complottista, Alfonso Giordano era pronto a protestare, a far sentire la voce del sempre autorevole Presidente di un Maxi processo estraneo alla mitologia. Con il Riformista aveva parlato, rilasciandoci una lunga intervista nel gennaio scorso nella quale ci aveva detto parole inequivocabili: «Alla storia della cosiddetta Trattativa non credo e nessuno che conosce i fatti può credervi. Si era incaricato di smentirla Giovanni Falcone. La aveva considerata una ipotesi inesistente Paolo Borsellino». Ricostruendo puntualmente la requisitoria sull’organizzazione mafiosa, fu tranchant: «La fecero molto bene Falcone e Borsellino. Conclusero che la mafia era gelosa delle sue cose e che la Commissione, che rappresentava il vertice della Cupola, emetteva le sue sentenze senza dare ascolto né a servizi deviati né a emissari della massoneria, né ad altri».

Insistette sull’inesistenza di chissà quali segreti nella favoleggiatissima agenda rossa di Borsellino («Aveva una agendina rossa, sì, con gli appuntamenti e qualche numero di telefono, mica con segreti di Stato») e nell’ultimo messaggio affidatoci volle mettere in guardia dalle ricostruzioni fantasiose, dalle alchimie e dalla facilità con cui si finisce per credere a certi pentiti: «Sui collaboratori di giustizia dobbiamo stare molto attenti. I depistaggi esistono sempre. Chiedo ai colleghi magistrati di mettere sempre il massimo dell’attenzione sull’attendibilità di chi collabora, perché le finalità della collaborazione sono sempre diverse da quelle che noi immaginiamo». Tanti i ricordi ed i saluti commossi che hanno raggiunto la famiglia. «Mi inchino commosso – ha dichiarato il sottosegretario alla difesa, Mulé – nel ricordo del giudice Alfonso Giordano, magistrato siciliano integerrimo. La magistratura e l’Italia perdono un uomo che seppe essere straordinario in tempi non ordinari».

«Il nome del presidente Giordano – ha detto il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando – resta indimenticabile e scritto nella storia di liberazione del nostro paese e della nostra città dalla criminale ipoteca della mafia e dal suo sistema di potere affaristico e politico». E Pietro Grasso lo indica come un esempio per le nuove generazioni: «Abbiamo tutti il dovere di ricordare la sua figura ai più giovani».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.