È invalso ritenere che, a paragone del diritto pieno di chi scappa dalla guerra, chi invece scappa dalla fame vanti un diritto dimidiato all’accoglienza. Ma a parte il fatto che molto spesso la fame da cui si scappa è generata proprio da una guerra, resta da capire in base a quale criterio il cosiddetto “migrante economico” (formula buona per un consulente in cerca di emolumento migliore) sia tanto più facilmente destinatario delle politiche dei porti chiusi. Si obietta che è una questione di numeri, “perché mica possiamo accoglierli tutti”, ma la realtà è che la ripulsa ci sarebbe anche se fossero mille volte meno quelli che per non morire di fame dove stanno tentano di sopravvivere altrove.

La disperazione di una madre che guarda il figlio con il ventre rigonfiato dalla denutrizione non è meno intensa rispetto a quella che prova l’altra, quando sono le armi a minacciare la vita dei suoi figli: pure, nel primo caso lo spirito d’accoglienza è recalcitrante. C’è una spiegazione, per questo atteggiamento oggettivamente discriminatorio? Mi pare di sì, e sta nel fatto che la miseria è dopotutto avvertita e giudicata come una specie di colpa, una cosa che riguarda esclusivamente “loro”, i poveri, mentre la guerra – e lo stiamo vedendo da un mese a questa parte – è qualcosa che può colpire tutti.

C’è più solidarietà verso il profugo di guerra perché le bombe spaventano anche noi; meno, o niente, verso chi scappa dalla fame perché non temiamo di morirne. È molto umano, e molto poco cristiano.