Prima i siriani, poi gli afghani. E ora i cittadini ucraini. Scappano dalle atrocità delle guerre. Ma l’Unione europea è pronta ad accoglierli? Stiamo ai fatti. La guerra in Ucraina comporta una drammatica emergenza umanitaria per l’esodo forzato di milioni di profughi e sfollati che si muovono in massa verso i paesi più vicini. Si calcola che ad oggi più di due milioni di ucraini sono affluiti in Polonia, Ungheria, Romania e Moldavia (pochi invece in Russia e Bielorussia). Si tratta di paesi notoriamente contrari all’immigrazione. Per fortuna in questo caso hanno tenuto viceversa i confini ben aperti, forse perché sentono che la vicenda ucraina potrebbe avere nuovi tragici capitoli nei paesi vicini, forse perché sono anche loro molto ostili alle politiche espansioniste della Russia.

In un articolo molto interessante pubblicato da lavoce.info Mariapia Mendola riferisce che, nonostante gli sforzi iniziali e l’elevato numero di persone portate in salvo in Italia prima della crisi ucraina, il nostro sistema di accoglienza si sta rivelando insufficiente: “la lentezza del sistema burocratico italiano – si legge nel pezzo – mette in pericolo chi non è ancora riuscito ad arrivare”. Si porta ad esempio il caso eclatante di donne afgane assistite dalle organizzazioni Pangea e Nove onlus, bloccate in Pakistan in attesa di un visto per l’Italia, che potrebbe non arrivare prima che siano rimpatriate, per via dei tempi lunghi richiesti dai controlli di sicurezza. Le procedure per i ricongiungimenti familiari, poi, sono quasi ferme.

Ma che cosa si può fare, invece, per gestire l’immigrazione in modo razionale ed efficace? Qualcosa si può fare, se si assecondano quanto più possibile le esigenze del tessuto produttivo senza cedere agli isterismi (e ai sovranismi) dei soliti noti. Un caso esemplare, per restare a un’area assai vicina a quella di crisi, è “Moldavia in movimento”. Si tratta di un accordo sottoscritto qualche mese orsono, destinato a portare in Italia migliaia di lavoratori originari del Paese dell’Est Europa, da impiegare in diversi interventi messi in cantiere sul territorio nazionale. Un ruolo di primo piano in questo progetto è stato svolto dall’Associazione nazionale aziende e professionisti (Anap), i cui circa 45mila aderenti sono pronti a impiegare duemila lavoratori edili moldavi i quali, in questo modo, avranno la possibilità di inserirsi agevolmente nel tessuto sociale ed economico italiano. La città dove si è registrata la svolta decisiva per la sigla dell’accordo è Teramo dove, nella sede della Camera di Commercio “Gran Sasso d’Italia”, presieduta da Antonella Bellone, le diplomazie e i rappresentanti delle categorie di produzione e servizi di Italia e Moldavia hanno definito la strategia che potrebbe portare i due Paesi a realizzare progetti comuni anche in ambito turistico e commerciale. A patto che la guerra in corso non impedisca, come purtroppo sembra, di attuarlo nella misura auspicata.

Il “patto teramese” è un precedente di cui tener conto anche in futuro. La Moldavia, infatti, è un Paese che fa registrare da anni un pil e un indice di sviluppo umano tra i più bassi nel Vecchio Continente. Un destino analogo si profila purtroppo per l’Ucraina, ferita a morte da un conflitto che segnerà drammaticamente, con conseguenze devastanti, l’economia di Kiev. La formula adottata con la Moldavia resta un modello e un’opportunità per le imprese italiane, da sempre in cerca di quella manodopera specializzata che talvolta appare introvabile. La formula infatti prevede che proprio dal mondo della produzione e dei servizi giunga l’input per una gestione dell’immigrazione più sostenibile e razionale, attenta sia alle esigenze economiche che al tema ineludibile dei diritti individuali.