Le notizie sono due. Il Tribunale di Firenze ha ordinato a GKN di revocare le lettere di licenziamento inviate nel mese di luglio ai propri 422 dipendenti. Il fondo Melrose Industries ha perso, alla borsa di Londra ove è quotato, l’8% quando è divenuta pubblica la notizia della decisione del Tribunale di Firenze. Prendere in considerazione una sola delle due notizie significherebbe accontentarsi di una conoscenza parziale dei fatti.
La decisione del Tribunale ha una base giuridica solida: essa poggia sulla palese violazione di alcune disposizioni contenute sia nel contratto nazionale di categoria e sia negli accordi aziendali, che prevedevano un previo coinvolgimento dei sindacati nel caso di licenziamenti collettivi o di chiusura dell’attività. I vertici dell’azienda avevano, evidentemente, ritenuto di poter portare avanti un vero e proprio colpo di mano, facendo affidamento sulla forza del fatto compiuto. Hanno fatto male i conti, non rendendosi conto di aver violato una regola fondamentale proprio delle economie liberali: pacta sunt servanda.
Ignorare questa regola fondamentale significa avere una visione del mercato svincolata da qualsiasi regola e fondata su meri rapporti di forza. Aspetto, questo, che appare coerente con il ricorso, molto sbrigativo, ad una mail per comunicare il licenziamento ed alla malizia di rendere lo stabilimento sgombro, prima della mail, per impedire che la inevitabile protesta sindacale potesse coinvolgere lo stabilimento stesso. Il Tribunale di Firenze, in definitiva, ha detto a GKN che non può sottrarsi alle procedure, che la stessa GKN ha contribuito a delineare negli accordi che ha sottoscritto. È una decisione eminentemente tecnica, la cui inevitabile valenza politica non può, tuttavia, mutarne il significato. Il Tribunale di Firenze non ha, neppure lontanamente, inteso mettere in discussione il diritto dell’imprenditore di decidere di chiudere l’attività. Anzi, ha sottolineato che un tale diritto discende direttamente dal principio costituzionale di libertà dell’iniziativa economica privata.
Ed è proprio ove si tenga conto di tale principio che si coglie la rilevanza, sotto molteplici aspetti, anche della seconda notizia. La circostanza che la decisione del Tribunale di Firenze abbia determinato un ribasso assai significativo (tale certamente è l’8%) dei titoli del fondo che detiene GKN significa che la chiusura dello stabilimento italiano ha un impatto sulle prospettive economiche dell’azienda particolarmente significativo, che sarebbe errato riferire a meri margini residuali di profitto. Si tratta, evidentemente, di una decisione destinata ad avere una portata molto rilevante sul futuro dell’azienda. È da escludere, quindi, che se le attuali condizioni resteranno immutate l’azienda cambierà programma. Rispetterà le procedure e rinnoverà i licenziamenti. Vi saranno occupazioni dello stabilimento, presidi, cortei e tavoli di crisi con i modestissimi risultati cui, in questi anni, si è assistito di fronte alle innumerevoli crisi aziendali che hanno colpito l’economia italiana.
Queste considerazioni portano ad alcune conclusioni. La prima è che si è probabilmente esagerato in esterofilia, attribuendo agli imprenditori stranieri un ruolo di salvatori della patria del tutto ingiustificato. Troppo spesso si vedono imprenditori italiani che, nella crisi, hanno cercato di salvare le loro aziende lottando sino allo stremo, portati sul banco degli imputati per non aver chiesto subito il proprio fallimento. Ma si dimentica che quelli stranieri non solo non lottano fino alla fine per salvare l’azienda, ma anzi chiudono non appena l’iniziativa non è più conveniente. Questo è tanto più vero quando, come in questa circostanza, l’imprenditore è un fondo di investimento, come tale istituzionalmente guidato dagli algoritmi e non certamente dal cuore.
La seconda conclusione è che, in una economia globalizzata, solo uno stato con la dimensione della Cina può imporre, ma anch’esso entro certi limiti, alle imprese sul suo territorio le proprie scelte. Gli altri devono confrontarsi con tutte le altre economie sul piano della competitività e dell’efficienza. Affinché questo confronto non si risolva in una continua negazione della dignità umana, il che avviene quando come nella vicenda GKN una intera collettività è messa da parte con la stessa facilità con cui si dismette un abito vecchio, è necessario che nell’economia globalizzata si fissino regole comuni. Altrimenti lo stato che agisce da solo rischia di restare fuori dai circuiti internazionali. Un organismo che ha già dato prova di riuscire ad imporsi ai singoli stati e che potrebbe essere la sede idonea per la creazione di norme sui disinvestimenti e sulle delocalizzazioni con impatto sociale è il WTO. Pensare, come ritengono di poter fare Orlando ed alcuni 5Stelle, ad una disciplina nazionale delle delocalizzazioni è puro velleitarismo.
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