“Doverosa certezza del diritto”. Queste parole, come ha giustamente rilevato Piero Sansonetti nell’editoriale del 4 febbraio, sono certamente il “ceffone”, per usare le parole del direttore, più duro tirato da Mattarella alla magistratura nel suo discorso di insediamento. Ciò tanto più che la frase, in cui l’espressione era inserita, suonava così: i cittadini “neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. Finalmente, dunque, una alta carica dello stato, anzi la più alta carica, riconosce che la questione giustizia non può essere confinata nei limiti di una richiesta di maggiore tempestività.

Al cuore della questione giustizia vi è un problema più profondo: quello del rapporto tra giudice e diritto e, perciò, in definitiva quello del rapporto tra potere legislativo e potere giudiziario. Si dirà, per contrastare il monito presidenziale, che, nelle società contemporanee, il legislatore non ha più, e da tempo, il monopolio della giuridicità. Il pluralismo che in esse si esprime, con visioni diverse della vita e codici morali addirittura in conflitto, hanno portato ad una progressiva delegittimazione della regola e a una progressiva incertezza sul suo contenuto. Con la conseguenza che si accentua il ruolo del giudice, chiamato a dare giustizia anche oltre i limiti della legalità, attraverso la definizione della regola del caso concreto, in una visione duttile del diritto, che proprio in riferimento al caso concreto offre una soluzione, che non può che essere transitoria, a problemi in continua e fluida evoluzione ( sul tema del rapporto tra diritto e giustizia, merita di essere segnalato il recente saggio di Fabrizio Di Marzio, Giudici divoratori di doni, Mondadori 2021).

Ogni limitazione, dunque, avrebbe l’effetto di depotenziare il ruolo salvifico del giudice, chiamato a adattare al caso concreto la giuridicità, che ormai non si esaurisce più nella legislazione. Tale ruolo, anzi, proprio per la continua evoluzione dell’universo della giuridicità, nelle sue varie componenti, richiede una costante evoluzione della stessa giurisprudenza, chiamata a ricomporre un quadro in costante trasformazione. Del resto, sia la pluralità delle fonti e sia la frequente incoerenza delle varie norme del diritto scritto rendono necessaria l’attribuzione al giudice di un potere che non può essere di mero fedele applicatore della norma. Su questi argomenti, dunque, si fonda una resistenza tetragona da parte degli esponenti dell’Anm a qualsiasi tentativo di dare un contenuto all’art. 101 cpv della Costituzione, per il quale i giudici sono soggetti solo alla legge, che non si limiti a dare conto della indipendenza da qualsiasi altro potere dello Stato, ma che serva anche ad individuare i limiti, entro cui la funzione giudiziaria può essere esercitata.

Del resto, quale sia la sensibilità su questo tema, da parte della magistratura, è testimoniato dalle recenti prese di posizione degli esponenti di una delle correnti dell’Anm, Area, i quali, di fronte alla prospettiva di organizzare un rapido smaltimento dell’arretrato, hanno lamentato “il rischio che, a fronte degli obiettivi di risultato richiesti, e non preceduti da un prudente studio di fattibilità, i magistrati, già sottoposti da tempo a ritmi produttivi molto elevati, sviluppino una tendenza alla standardizzazione impropria delle decisioni. Ne discenderebbe una inaccettabile diminuzione della qualità della giurisdizione, che diventerebbe forse più rapida, ma sicuramente più ingiusta, chiuderebbe ogni spazio all’evoluzione della giurisprudenza in tema di difesa dei diritti, creerebbe insoddisfazione e conflitto sociale”. In definitiva, la rivendicazione di un ruolo della giurisdizione di elaborazione di una evoluzione idonea a garantire la difesa dei diritti e a evitare il conflitto sociale individuerebbe il muro di cinta di una cittadella inespugnabile.

Non si può, tuttavia, ignorare che l’intervento del Capo dello Stato muove dalla constatazione che, troppe volte, l’esperienza giudiziaria ha dato conto e dà conto, per usare le sue parole, sia di decisioni arbitrarie e sia di decisioni imprevedibili. Le prime sono quelle nelle quali i fatti, visti con gli occhi di un furore spesso ideologico, vengono deformati nella loro obiettiva consistenza, come emerge quando c’è la fortuna di trovare, in una delle impugnazioni, un giudice realmente terzo, che dà evidenza alla totale inconsistenza di prove erroneamente ritenute granitiche. Le seconde sono quelle nelle quali tra la decisione e le norme applicate non vi è alcuna attinenza. Con la conseguenza che, se si ha come riferimento il diritto, la decisione è del tutto imprevedibile.

A questo occorre, poi, aggiungere la circostanza che molto spesso la giurisprudenza, anche della Corte di Cassazione e talora addirittura delle Sezioni Unite, è in contraddizione con sé stessa. Con la conseguenza, da un lato, che l’esito della lite finisce con l’essere frutto di mera casualità e, dall’altro, che l’incertezza finisce con l’essere essa stessa un fattore decisivo per la moltiplicazione del contenzioso. Troppo spesso, dunque, la pluralità delle fonti, la loro contraddittorietà, l’evoluzione della società, fattori che certamente esistono, costituiscono lo scudo dietro cui si nasconde un inammissibile sfrenato soggettivismo. Un ordine giudiziario che produce decisioni arbitrarie o imprevedibili spoglia, in una prospettiva che per essere esemplificativa è volutamente estremizzata da chi scrive, il diritto della fondamentale funzione di offrire ai cittadini una regola di condotta ed esaurisce la giuridicità nel fatto che i conflitti andranno risolti nei tribunali, ove monarchi vincolati dalle sole regole procedurali daranno una qualche definizione.

Si dimentica, così, che la certezza del diritto corrisponde direttamente ad una esigenza fondamentale di qualsiasi società organizzata: la possibilità di prevedere con chiarezza le conseguenze del proprio agire (fondamentali, su questo tema, restano le pagine di Flavio Lopez De Onate,La certezza del diritto”, Gismondi, pubblicato a cura di Guido Astuti nel 1942). È del tutto evidente che una tale prospettiva si colloca al di fuori non solo del solco tracciato dalla Carta costituzionale, ma anche di quelli che sono i capisaldi di uno Stato autenticamente democratico. A ben vedere, dunque, il monito di Mattarella costituisce il richiamo più forte e più chiaro, che sia mai stato formulato in sede istituzionale, a porre rimedio alla circostanza che la magistratura italiana è spesso venuta meno, e sempre più nel corso degli anni, al ruolo e ai doveri, che le sono assegnati dalla Carta costituzionale. L’aggettivo “doverosa”, usata dal Capo dello Stato per indicare quale sia il valore della certezza del diritto, indica che all’adempimento di quest’obbligo preciso troppo spesso si è sostituito l’arbitrio. Senza di essa, resta priva di tutela la stessa libertà degli individui di poter agire nel rispetto della legge.