Sarà pure stato un fallimento della politica, ma la rielezione di Sergio Mattarella è l’esito più aderente alle aspettative dei cittadini italiani e più desiderato dalle cancellerie europee. In più, rappresenta di sicuro il migliore piano B per tutti coloro che si auguravano di spostare al Colle Mario Draghi. Sembra un paradosso: un parlamento balcanizzato – eredità delle elezioni del 2018 e delle convulsioni degli ultimi anni – è stato in grado di compiere uno scatto di reni. Tale da garantire sette anni di stabilità per il paese, in continuità con la sua collocazione europeista e atlantica.

In questa prospettiva, Mattarella potrà ricreare le condizioni perché il governo si dedichi con tutte le forze disponibili all’attuazione del Pnrr. Dal canto suo, archiviata l’ipotesi di trasferimento al Quirinale, Mario Draghi può adesso svolgere con sufficiente serenità l’incarico per il quale è stato selezionato: spendere i soldi dell’Europa per favorire la ripresa economica. Lo rafforzano alcuni elementi: il Mattarella bis, la fedeltà del parlamento, la debolezza cronica dei partiti. Questi ultimi cominciano adesso l’anno elettorale verso le politiche del 2023, ma a nessuno di loro conviene minare il cammino di Mario Draghi, se non al prezzo di remare contro la rinascita del paese dopo anni di pandemia.

Nell’ambito del Next Generation Eu, all’Italia sono stati assegnati circa 190 miliardi di euro tra prestiti e sovvenzioni. Queste risorse non saranno erogate in un’unica soluzione ma in rate successive. Un primo pre-finanziamento pari a 24,9 miliardi di euro è stato erogato nel corso dell’estate scorsa. Il governo è adesso in attesa del primo finanziamento vero e proprio pari a circa 21 miliardi. Tuttavia, nello stile dei progetti europei, l’erogazione delle risorse è subordinata al rispetto di un rigido cronoprogramma. Nel corso del 2022 gli adempimenti imposti dall’Unione europea saranno 100 (83 milestone e 17 target). Le scadenze sono fissate a giugno (38+1) e a dicembre (51+16). I soggetti responsabili dei singoli adempimenti saranno soprattutto i ministeri (o comunque le strutture legate all’attività del governo come la protezione civile). Il governo si troverà insomma ad affrontare una selva di scadenze di fronte alle quali nessun leader politico potrà pensare di aprire vertenze senza correre il rischio di creare seri problemi al paese. È molto probabile, insomma, che le fibrillazioni dei partiti si scaricheranno sui media – magari con qualche polemica di bandiera – senza toccare la regolarità del percorso dell’esecutivo.

E tuttavia, in occasione delle elezioni dell’anno prossimo, sarà necessario affrontare una divaricazione decisiva tra i tempi della politics e i tempi delle policy. Da una parte (piano della politics), il voto degli elettori darà vita nel 2023 a un nuovo quadro politico: impossibile oggi immaginare quale, vista la frammentazione dei partiti, la loro fibrillazione interna e le tensioni dentro le coalizioni. Dall’altra parte (piano della policy), la scadenza finale per l’attuazione delle politiche e degli obiettivi del Pnrr è fissata al 2026.

Anche nella prossima legislatura si porrà pertanto il problema di un governo capace di garantire il successo del piano, pena la perdita delle risorse europee e il fallimento di obiettivi cruciali per la nostra economia. Il presidente Sergio Mattarella, forte di un incarico lungo un settennato, sarà ancora lì a garantire la continuità necessaria per promuovere l’interesse generale del paese. Viceversa, si dà per scontato che Mario Draghi, una volta cambiato il quadro politico, non sarà più alla guida del percorso. Ma sarà davvero così?

Nella storia della Repubblica c’è un precedente interessante e, in un certo senso, esemplare: la collaborazione tra il presidente della Repubblica Luigi Einaudi e il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi dal 1948 al 1953 (durante il settennato di Einaudi, il Dc trentino guidò i suoi ultimi quattro governi). Negli anni della ricostruzione economica dopo la Seconda Guerra mondiale, infatti, i governi guidati da Einaudi usarono gli enormi investimenti del Piano Marshall per promuovere la ripresa e la prosperità del paese. Un modello di successo al quale oggi varrebbe la pena ispirarsi.

Peraltro, è possibile che la frammentazione e la disarticolazione del sistema politico – toccato anche dalla riduzione del numero dei parlamentari che scatterà proprio nel 2023 – possano proseguire anche nella prossima legislatura, segnando una passaggio storico non breve. Un esito certamente realistico – una ‘paradossale stabilità’ – soprattutto se il parlamento non riuscisse a varare una legge elettorale di impianto maggioritario, mantenendo così una geografia iperproporzionale simile a quella odierna. Non mancano esempi illustri sul piano europeo. Basti pensare ai governi di larghe intese guidati in Germania da Angela Merkel (sostenuti sia dai centristi della Cdu che dai socialisti della Spd). Ecco perché, dopo aver già sperimentato la paradossale stabilità della rielezione di Mattarella, il 2023 potrebbe ratificare un Draghi bis con un presidente del consiglio che succede a se stesso.

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient