La corsa al Quirinale. Una corsa ad ostacoli. Il Riformista ne discute con Andrea Romano, parlamentare del Partito democratico e portavoce di Base Riformista, l’area politica del Pd guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti.

Al centro dei “giochi” politico-istituzionali c’è Mario Draghi. Mettiamola così: da un lato c’è il partito, trasversale, di quelli che lo vorrebbero da subito al Quirinale, e dall’altro lato della “barricata”, il partito, anch’esso trasversale, di coloro che sostengono la sua permanenza a Palazzo Chigi fino al termine naturale della legislatura, a marzo 2023. Lei in che partito si colloca?
Io m’iscrivo anche in questo caso alla “terza via”. Ovvero al partito di coloro che lavorano per tutelare il nome di Mario Draghi, partito maggioritario nel paese e tra i Grandi elettori. Perché ritengo Mario Draghi una risorsa fondamentale per il presente e il futuro dell’Italia, soprattutto in un anno come il 2022 che gli storici del futuro ricorderanno come un anno nel quale l’Italia si è giocata, io spero bene ma non è scontato, carte decisive per il futuro. Oggi l’Italia chiede alla politica essenzialmente due cose: uscire dalla pandemia e preservare il quadro di unità, che significa fondamentalmente preservare la continuità dell’azione di governo fino alla fine della legislatura. Chi si incaricasse di mandare in frantumi tale continuità, respingendo la richiesta di unità e normalità che viene dagli italiani, si prenderebbe una responsabilità disastrosa e sarebbe duramente e giustamente punito dal paese.

Cosa intende con “tutelare Mario Draghi”?
Vuol dire tre cose. Anzitutto, non gettarlo nel calderone del toto nomi. Secondo, non farne un candidato di bandiera e quindi di una minoranza, che sarebbe un danno sia per Draghi che per il paese. E terzo, avere ben presente che un esito catastrofico sarebbe quello di chiudere la vicenda quirinalizia senza avere Mario Draghi né al Quirinale né a Palazzo Chigi. Ci saremmo dati una grande picconata sui piedi. Detto tutto questo, va subito rimarcato che non vi può essere alcuna pregiudiziale sul nome di Draghi al Quirinale, ovviamente dentro un consenso molto ampio attorno alla sua candidatura, proprio per evitare che si trasformi Draghi in uno “strumento” minoritario, cosa che non dobbiamo auspicare per il futuro del nostro paese. Intorno al suo nome dovrebbe esserci un amplissimo consenso.

Ma una candidatura condivisa, Draghi o altri, che ottenga il consenso di gran parte del Parlamento, non è ostacolata dalla frammentarietà delle forze politiche, nel centrodestra come nel campo che la riguarda?
Intanto va detto che il centrodestra non solo non è maggioranza tra i Grandi elettori (come raccontano Salvini e Meloni) ma al momento non riesce neanche a riunirsi intorno ad un tavolo, perché bloccato da una candidatura che ancora non c’è ma è come se ci fosse, ed è quella di Berlusconi. Mi pare che i problemi ad oggi siano soprattutto a capo del centrodestra. Noi, il Pd, stiamo facendo un altro lavoro…

Quale?
Quella tra Letta, Conte e Speranza, è stata una riunione importante, necessaria e utile. Perché è fondamentale che quella che è una coalizione politica si riunisca nei suoi leader e ragioni anche sulla partita quirinalizia. Ritengo che abbiano fatto bene a riunirsi e c’è uno stretto collegamento permanente in queste ore. Altrettanto importante, a mio avviso, è che le tre forze politiche concordino un percorso incentrato sull’urgenza di arrivare ad una candidatura il più possibile unitaria tra i Grandi elettori, a partire dall’attuale e ampia coalizione di governo. Poi all’interno di ciascuna di queste tre forze ci possono essere sensibilità diverse. Io ho grande rispetto per il percorso che stanno facendo i 5Stelle e non ritengo utile dare consigli a Conte. Anche perché mi rendo conto che si sta cimentando con un’impresa complicata. Io che non sono mai stato culturalmente vicino ai 5Stelle, e continuo a non esserlo, riconosco però che la trasformazione che stanno facendo potrebbe essere utile alla democrazia italiana e auspico che abbia un esito solido. Ma è ovvio che dentro i 5Stelle vi siano dinamiche diverse da quelle che esistono nel Pd, che sulla vicenda del Quirinale sta mostrando, come è giusto che sia, un grande senso di unità e di responsabilità. LeU ha idee diverse su alcuni passaggi, ad esempio sull’opportunità politica di Draghi al Quirinale. Detto questo, resto dell’idea che la cosa più importante è la condivisione di un metodo. E queste tre forze politiche, che sono anche forze alleate per il futuro, condividano l’urgenza di un metodo unitario da condividere con gli alleati di governo. Non stiamo dicendo “o così o nulla, questo è il nome”. Stiamo rivolgendoci alle altre forze politiche del centrodestra invitandole a raggiungere un obiettivo comune, sapendo non solo che nessuno ha la maggioranza ma che l’Italia ci chiede unità e continuità.

In una intervista a questo giornale, Luigi Berlinguer, che del Partito democratico è stato uno dei soci fondatori, ha lanciato un accorato appello al senso di responsabilità e di lungimiranza delle forze politiche, affinché utilizzino la parte finale della legislatura per mettere mano ad una riforma del sistema politico-istituzionale. Lei come la vede?
L’appello di Luigi Berlinguer va raccolto e sviluppato, tenendo ben presente le difficoltà del momento e tempi che non sono lunghissimi. Questa legislatura ha visto l’impegno a realizzare riforme istituzionali necessarie al miglior funzionamento della nostra democrazia. Finora abbiamo solo ridotto il numero dei parlamentari, un passo utile e necessario ma come inizio di un percorso che va assolutamente proseguito e completato. In questo c’è da fare un lavoro a più piani. Da un lato quanto meno la riforma dei regolamenti parlamentari. L’altro è la riforma della legge elettorale. Due passi indispensabili affinché questa legislatura raggiunga quanto meno il minimo sindacale sul lato delle riforme del sistema politico. Per quanto mi riguarda, auspico una legge elettorale proporzionale con sbarramento normale, che darebbe un giusto equilibrio tra rappresentanza e governabilità.

A proposito del dibattito a sinistra. Molto ha fatto discutere l’affermazione di Massimo D’Alema secondo cui la fase renziana del Partito democratico è come “una malattia che fortunatamente è guarita da sola”. Lei si sente un guarito?
Direi proprio di no. A D’Alema ha risposto bene Letta a nome di tutto il Pd. Nessuna malattia, nessuna guarigione, solo passione. E aggiungo io che giudicare i cicli politici con le categorie della medicina non fa onore all’intelligenza politica di Massimo D’Alema. Soprattutto per chi come noi, parlo per me, per D’Alema e tanti altri, ha familiarità con la vicenda sovietica. Credo che quello sia stato un incidente di cui lo stesso D’Alema si è reso conto rapidamente, anche perché il sottotesto che tutti vi hanno letto è stata l’ammissione implicita del fallimento della scelta di dar vita ad Articolo Uno. La vicenda della segreteria Renzi è stato un ciclo politico del Partito Democratico. Renzi, è bene ricordarlo, è stato eletto per due volte dalle primarie del partito a segretario. Vede, a me impressiona sempre quando Renzi ricorda le vittorie politiche del Pd attribuendole solo a se stesso. Quelle sono state vittorie di tutta un’ampia comunità politica. Penso, solo per fare un esempio, alla legge sulle unioni civili. Conquiste politiche del Pd e non di una sola persona. Anche i successi di quella stagione dimostrano che gli obiettivi politici si possono raggiungere solo attraverso dei partiti autenticamente democratici e popolari, al contrario dei partiti personali. Ed è una delle tante ragioni che mi hanno fatto sempre pensare che la scelta di Renzi di uscire dal Pd sia stata una sbagliatissima. Anche se non è stato il solo, tra gli ex segretari del Pd, a compierla. Il doppio fallimento delle scissioni di Renzi e Bersani, entrambi ex segretari, ne sono una dimostrazione.

Sbagliatissima, perché?
Le ragioni sono diverse. Una cosa è evidente a tutti: l’insuccesso di Italia Viva dimostra che forze politiche personali, come quella di Renzi, fuori dal Pd non servono a niente. È una grande lezione sull’utilità dei partiti popolari, pur con tutte le difficoltà dei partiti. Come direbbe Churchill «il partito popolare è il peggiore di tutti i sistemi di organizzazione della militanza politica, tranne tutti gli altri». E non è un caso che, pur con tutte le loro magagne, in democrazia ancora non si sia trovata una valida alternativa ai partiti. Io sposo quanto affermato da Gentiloni: dobbiamo avere cura del Pd. Perché fuori dai grandi partiti politici non c’è un Eldorado e neanche un percorso che conduce a grandi successi progressisti o liberali, ma vicende rumorose ma alla fine irrilevanti di partiti personali che gli italiani alla fine non premiano mai.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.