Che delle residuali risorse della democrazia come Draghi e Mattarella siano diventate, per una certa sinistra culturalmente confusa, l’espressione della malattia mortale della Repubblica sorprende, ma solo in parte. È zeppa la storia politica italiana di una cecità analitica delle classi dirigenti sempre esperte nella produzione di testacoda, come diceva Gramsci. Fare di Mattarella l’artefice di una regressione politico-culturale-sociale che avrebbe trovato in Draghi l’esecutore materiale per il restringimento degli spazi democratici è un assioma di per sé assurdo. Dipingere la funzione storica di Mattarella e Draghi come quella della imposizione, ai limiti del golpismo soft, di un governo succursale delle multinazionali finanziarie è una provocazione incomprensibile (se Draghi rappresenta l’a-democrazia, non si capisce perché Speranza continui a stare nell’esecutivo).

La leggenda di una tecnocrazia galoppante che divora la politica e annichilisce la democrazia è solo aria fritta, senza una minima consistenza analitica. Da Ciampi a Draghi, sono state reclutate delle energie presenti in grandi istituzioni pubbliche (non la finanza, ma la Banca d’Italia, la Bce: istituzioni politiche, anche se non elettive) e coinvolte in un’azione coordinata tra Capo dello Stato e partiti più responsabili per gestire le situazioni di acclarata emergenza (giudiziaria, economica, finanziaria, politica). Fare di tutti gli ultimi inquilini del Quirinale (e però Scalfaro, l’inventore dei governi “tecnici”, è stato reclutato come presidente dei comitati per la difesa della Costituzione) dei violentatori del dettato costituzionale è non solo un colossale abbaglio interpretativo, ma una delegittimazione strutturale di quella repubblica parlamentare che a parole si intende difendere da ogni usurpatore.

La “politica” non è stata divorata, complici le forzature procedurali dei Presidenti, dai tecnici, ma è proprio il ceto politico che regolarmente da trent’anni si appella a figure competenziali esterne quando non ha più la capacità di esprimere una coerente regia parlamentare e le condizioni istituzionali-finanziarie precipitano. La sinistra ha già pagato duramente gli errori evocativi del 1992-94 determinando le condizioni di una repubblica populista. Oggi sembra ripetere le stesse ingenuità di trent’anni fa e si appresta ad apparecchiare il comodo successo della destra.
Chi può negare una certa simpatia umana che Giorgia Meloni è capace di suscitare quando si presenta come la incarnazione della “pesciarola” irrisa dal radicalismo snob ostile al popolo? Eppure la immagine della madre e cristiana che va in Spagna presentandosi con gli anfibi dinanzi alla piazza orfana del caudillo suscita ugualmente una sensazione di brivido. Evitare che la forte campagna di opinione contro la “Draghicrazia” provochi la classica frittata è dunque una preoccupazione ragionevole.

Bisogna distinguere a questo riguardo tra la questione della sinistra (partito, identità: temi epocali e però da tempo irrisolti, dunque al momento esercitazioni impolitiche) e il tema più congiunturale: come costruire una eterogenea coalizione politica alternativa a Giorgia madre e cristiana? Perché pare evidente che la posta in gioco, a legge elettorale invariata e a numero assai ridotto di parlamentari, è soprattutto quella di scongiurare un trionfo della destra che per dimensioni avrebbe un significato catastrofico. Non è svuotata di senso la proposta di chi, in questa situazione di incertezza, suggerisce di approfittare della carta Draghi per sistemare per un settennato almeno la casella cruciale del Quirinale. Che questo rimedio senz’altro utile risolva però i nodi reali di un governo acciuffato da Meloni (o Salvini) pare dubbio. Certo, il Colle dinanzi a un successo della destra potrebbe forse confidare in una componente ragionevole di provenienza berlusconiana e così sperare di giocare di sponda la eterna partita della contrattazione, della responsabilità.

E però ipotizzare rilevanti dissociazioni in una destra dominata militarmente da Salvini e Meloni sembra un azzardo per ora costruito sul nulla. La compattezza delle truppe sovraniste dovrebbe risultare più solida e capace di resistere alle sirene quirinalizie (l’eclissi di Fini ancora brucia). Non sembra per questo che la casella del Quirinale rassicuri saldamente sulla tenuta dell’impianto democratico dinanzi al precipitare dei rapporti di forza nella politica.
Da qui nasce l’ipotesi di una costruzione attorno a Draghi di una coalizione larga di forze variegate di centro e di sinistra. Non si tratta di una riedizione passiva in salsa mediterranea della operazione Macron. In Francia ha prevalso una linea di potere personale che dall’alto ha forzato le moribonde truppe socialiste occupando l’Eliseo. In Italia (diversamente anche dalla “salita” montiana) sono i partiti a delineare una convergenza elettorale (che non annulla le operazioni necessarie di ricostruzione organizzativo-identitaria) su una figura di governo in grado di bloccare lo scivolamento sovranista e populista.

Quanto alla stanchezza che affiora verso il reclutamento di un nuovo papa straniero c’è da chiedere: forse Prodi non lo era anche lui? E Conte è per caso un animale politico nato dalle organizzazioni collettive? Non è anche lui un “tecnico” pescato dall’ambiente professionale-universitario? La funzione dei partiti è reclamata in astratto da chi non ha mai mosso un dito per ricostruirli seriamente e quindi è costretto dall’emergenza a mostrare adattabilità verso soluzioni creative. Le condizioni piuttosto proibitive che incontra il progetto di allestire una competitiva coalizione capace con un campo largo di battere la destra radicale (l’inclusione dei grillini si pagherebbe con la diserzione dei liberaldemocratici) sarebbero eliminate nel caso di una convergenza di forze liberali, di sinistra, di centro e di provenienza grillina attorno alla leadership di Draghi, che già sostengono in parlamento e nel governo.

L’errore strategico degli anni ’90 non sembra aver insegnato molto alla sinistra in termini di consapevolezza storico-strategica. Dinanzi al governo Ciampi il Pds perse allora la bussola compiendo alcune mosse che si sono rivelate anche tatticamente avventate. Ricorda lo storico Denis Mack Smith (Storia d’Italia. Dal 1861 al 1997, Roma-Bari, 1997, p. 647) che “un altro tabù fu violato quando tre iscritti al Pds entrarono nel governo senza che da Washington giungessero obiezioni contro questa riabilitazione della Sinistra. Purtroppo, con un atto che parve a molti uno sciagurato errore, tutti e tre si dimisero quasi immediatamente in segno di protesta”. Secondo lo stesso Ciampi il ritiro fulmineo del Pds dal nuovo governo in segno di protesta per il voto della Camera sull’autorizzazione a procedere contro Craxi rappresentò un evento storico alquanto decisivo per l’evoluzione del quadro politico nel lungo periodo: “la storia italiana è cambiata il 29 aprile del ’93. Quello è stato il grande errore del Pds” (cit. in P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, Bologna, 2010, p. 1169).

A contrastare l’ingresso del Pds nel governo furono in tanti e scettico verso l’esito tecnocratico si mostrava D’Alema, che paragonava Ciampi a Badoglio e in una riunione di partito chiedeva esplicitamente: “Dopo il governatore della Banca d’Italia a chi tocca? Al capo di stato maggiore della difesa?” (cit. in M. Damilano, Eutanasia di un potere. Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica, Roma-Bari, 2013, p. 548). Il trattamento che il Pds e il Ppi riservarono al governatore della Banca d’Italia, portato anche allora dalla “necessità” a gestire Palazzo Chigi, fu una delle cause decisive del successo di Berlusconi, perché la mancata confluenza attorno a Ciampi determinò un vuoto competitivo rivelatosi ben presto disastroso.

Proprio l’intempestiva rinuncia alla leadership di Ciampi in vista delle prime elezioni con il sistema maggioritario, e cioè la sua rimozione come figura politica centrale dopo il lavoro di emergenza condotto dal “super tecnico” che risana il capitalismo italiano, condusse alla sconfitta della politica nel 1994 e al trionfo durevole del populismo. La battaglia odierna contro la “Draghicrazia” ha per questo i tratti muffosi del già visto, ha le sembianze imbarazzanti di una tragedia che si ripropone come sceneggiata caricaturale. La politica non si difende con la fraseologia (è proprio sicuro Piero Ignazi che Draghi è un conservatore, mentre Conte è una personalità di sinistra?) ma con l’intelligenza tattica e la visione strategica.