"Finalmente il giudice sarà davvero terzo"
Di Pietro vota sì al referendum sulla separazione delle carriere: “Alta Corte e sorteggio terrorizzano le toghe, basta strapotere”
I PERCHÉ DEL MIO SÌ – L’ex pm di Mani Pulite: “Il Csm non giudicherà più sé stesso” ma “la maggioranza non commetta errori di comunicazione o la riforma rischia di saltare per sempre”. Affluenza? “Dobbiamo spiegarlo ai cittadini. Anche io l’ho spiegato a mia sorella di 90 anni, che ha fatto la terza elementare”.
Sì alla separazione delle carriere, no alla «giustizia domestica» e allo strapotere del Consiglio superiore della magistratura. Il voto favorevole al referendum arriva da chi meno te lo aspetti: Antonio Di Pietro. L’ex pm simbolo di Mani Pulite sostiene la riforma che sta agitando il mondo togato.
La sua voce arriva come una scossa nel pieno del dibattito infuocato dall’Associazione nazionale magistrati: il testo del governo non è una bestemmia, ma un sacrosanto tentativo per far sì che ci sia davvero un giudice terzo. Una posizione che spiazza chi pensava di trovarlo nel fronte del «no»: d’altronde, separare le carriere significa dare piena concretezza all’articolo 111 della Costituzione. Per Di Pietro, paventare il rischio di una sottomissione del pm al governo è pura fuffa. È un’operazione di facciata che nasconde il vero motivo per cui le toghe sono terrorizzate dalla consultazione popolare: l’Alta Corte di Giustizia toglierebbe al Csm il potere di giudicare sé stesso. Ma il fondatore dell’Italia dei Valori avverte il centrodestra: «Se viene messo il cappello di Berlusconi sopra il provvedimento, la riforma rischia di non andare in porto».
In primavera gli italiani saranno chiamati alle urne per il referendum sulla separazione delle carriere. Lei cosa voterà?
«Voterò sì. Io sono sempre stato favorevole, fin dal 1989 con la riforma del sistema inquisitorio e del sistema accusatorio. Non c’era ancora Berlusconi e non ci aveva messo il cappello. L’articolo 111 della Costituzione dice testualmente che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. In italiano, per logica, se il giudice è terzo ma fa parte della stessa famiglia di uno dei due, c’è una contraddizione. Se poi andiamo a vedere l’articolo 104 della Costituzione, io vorrei che si mettessero i cittadini in condizione di vedere l’articolo 104 come è adesso e come diventerà dopo».
Cosa cambierà?
«Nulla. C’è scritto che i magistrati costituiscono un ordine autonomo e indipendente, che è una sacralità che nessuno deve mettere in discussione e che a mio avviso è un pilastro cardine della nostra Costituzione. Bene. Con la riforma, l’articolo 104 resta scritto così. I magistrati del pubblico ministero e giudicanti costituiscono un ordine autonomo e indipendente. Quindi vorrei capire cosa cambia rispetto ad ora…».
L’Anm, però, sta già infuocando il dibattito e aizzando il fronte del «no»…
«Accusare questa riforma di voler intaccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura è una critica costruita appositamente per indurre il cittadino a votare “no”. L’Anm sposta l’attenzione su un paventato rischio di subordinazione del potere indipendente al potere esecutivo che non esiste. Per poter modificare l’articolo 104 della Costituzione servirebbe un’altra riforma costituzionale, che non è alle porte. Tra l’altro, non sarebbe neanche possibile farla perché il popolo si ribellerebbe».
Allora perché le toghe sono già sulle barricate?
«La vera ragione per cui l’Associazione nazionale magistrati si oppone è una: la riforma prevede la costituzione dell’Alta Corte di Giustizia e il sorteggio. Se ne parla poco, ma è la motivazione di fondo per cui l’Anm si oppone. L’Alta Corte toglierebbe il potere all’interno del Consiglio superiore della magistratura di fare una propria giustizia disciplinare interna: oggi sul piano disciplinare e delle promozioni – quindi sul piano della carriera – decide il Csm. Con l’istituzione dell’Alta Corte, si toglie al Consiglio superiore della magistratura il potere vero: quello di giudicare per sé stessi, per gli stessi magistrati».
Così si direbbe addio alla «giustizia domestica»…
«Esatto. Io sono contro la giustizia fatta in casa per quanto riguarda i provvedimenti disciplinari. Sono contro il fatto che gli avvocati sul piano disciplinare vengano giudicati da Consigli distrettuali, cioè dagli stessi avvocati; i geometri dallo stesso Ordine dei geometri; gli ingegneri dallo stesso Ordine degli ingegneri; i giornalisti dallo stesso Ordine dei giornalisti. Nella giustizia domestica non c’è certezza di terzietà. Noi abbiamo discusso del “modo clientelare” del caso Palamara. Lo ricorda?».
Certo, come no.
«Ma noi di quale Palamara parliamo? Del Palamara le cui frasi sono state intercettate o di tanti altri Palamara che non sono stati intercettati? Questo è il tema. Allora, per estirpare la radice, dobbiamo togliere il potere di governare allo stesso Ordine».
Però c’è chi teme che il pm finisca per essere subalterno al governo…
«Adesso ci sono magistrati – che sono la stragrande maggioranza – che fanno il loro dovere, e magistrati che invece si appecoronano al potere esecutivo o ad altri poteri. Il magistrato che vuole fare il proprio dovere in modo coerente, determinato, rispettato, non lo fermerà nessuno in alcuna maniera, se non in due modi: un quintale di tritolo o un altro magistrato. Non c’è altro potere».
Negli anni ’90 lei è stato un simbolo di fiducia nella magistratura da parte del popolo. Oggi, sostenendo la separazione delle carriere, come si comunica al cittadino che non si tratta di attaccare i magistrati ma di rafforzare la giustizia?
«Innanzitutto c’è un grave errore di comunicazione che sta facendo il centrodestra, soprattutto Forza Italia. Mettendoci il cappello sopra, dividono i cittadini tra quelli che votano per partito opposto e quelli che non votano per partito opposto. Anche io devo sforzarmi per mantenermi coerente con i pensieri che avevo nell’89. La riforma non è una rivendicazione di Berlusconi, ma riguarda un tema più grande, più generale, più qualificante. Invece in questo modo si divide, e c’è una buona probabilità che questa riforma non vada in porto. E se non dovesse andare in porto, la colpa essenziale sarebbe di chi ha voluto mettere il cappello sopra non avendo né titolo né diritto. Chi mi dice che questa è una riforma che voleva Berlusconi, mi fa arrabbiare due volte. Le maggioranze cambiano, ma la Costituzione resta. E a me dà fastidio dover votare un “sì” con il cappello messo sopra dai berlusconiani».
Come si spiega un tema così tecnico ai cittadini?
«Basta un esempio concreto, molto semplice. Si dice che non c’è bisogno della separazione delle carriere per avere un giudice terzo. Si dice che in questo modo non cambia niente perché nessuno cambia carriera. E allora, se davvero non cambia niente, perché non lasciare sereno chi entra in un’aula di giustizia, qualunque sia la sua giacchetta? Perché non lasciarlo sereno di avere un giudice che non fa parte della stessa famiglia del pubblico ministero? “Terzo” vuol dire che abbiamo fatto il concorso insieme, che il Csm ci valuta tutti e due allo stesso modo, che entrambi possiamo far parte di tutte e due le carriere, che sul piano disciplinare posso essere giudicato da quello che oggi sta lì, che fa il pubblico ministero e che domani all’interno del Csm sarà il mio giudice che giudicherà il mio lavoro. Questo va spiegato al cittadino. Ma mi sembra che non tutti abbiano capito una cosa».
Quale?
«Questa è una riforma fisiologica e consequenziale a quel che fu deciso nell’89. E rischia di saltare non per una questione di merito, ma per l’errore di comunicazione che sta commettendo una parte politica per un interesse politico».
Perché un idraulico, un contadino, un operaio dovrebbero uscire di casa e andare a votare per la separazione delle carriere? Lo sentono distante come tema…
«Qui entra in gioco la comunicazione. Tutti coloro che hanno una funzione pubblica devono far capire ai cittadini che è una riforma costituzionale, una riforma che attiene alla propria realtà, alla libertà di un Paese democratico. Perché la Costituzione è la madre della democrazia. Noi ce l’abbiamo scritta lì. Se andiamo a modificare la Carta, dobbiamo spiegarlo ai cittadini. Anche io l’ho spiegato a mia sorella di 90 anni, che ha fatto la terza elementare. Mi ha chiesto: “Ma io come mi devo comportare?”. E le ho detto che deve scegliere come vuole. A mio avviso è bene che ci vada; poi può credere a me per quel che le ho detto o può credere a chi dice che questa riforma peggiorerà la giustizia. L’importante è andare a votare».
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