In Calabria le inchieste giudiziarie, soprattutto quelle da prima pagina e con molti arrestati, si concludono abbastanza di frequente con un nulla di fatto. Dopo l’iniziale clamore mediatico, infatti, arrivano le assoluzioni. Una di queste inchieste rivelatasi un buco nell’acqua è la “Leonia”, dal nome della società che si occupava agli inizi degli anni 2000 della raccolta dei rifiuti nel comune di Reggio Calabria. Tutti gli imputati, molti dei quali hanno trascorso dai 6 ai 9 anni in custodia cautelare, sono stati assolti dalla Cassazione a novembre del 2021 perché il fatto non sussiste.

Ma facciamo un passo indietro, al 2001 quando la Direzione distrettuale antimafia ipotizzò infiltrazioni della ‘ndrangheta reggina in tutto il sistema della gestione dei rifiuti. Con riferimento alla Leonia, in particolare, i pm ritenevano che tramite la Semac, una azienda gestita dalla famiglia Fontana a cui era stato affidato il servizio di manutenzione dei mezzi per la raccolta dei rifiuti, venisse garantito alle cosche un rilevante sostegno economico. Del fascicolo, inizialmente assegnato al pm Giuseppe Lombardo, per anni non si seppe nulla, fino al 2011 quando a capo della Procura di Reggio Calabria arrivò Giuseppe Pignatone che mise nel mirino Giovanni Fontana, il titolare della Semac. Per la Procura Fontana aveva avuto un ruolo fondamentale nella cosiddetta seconda guerra di mafia di Reggio, quando, a capo di un gruppo “separatista”, si era schierato contro la ‘ndrina dominante dei De Stefano. Fontana era, sempre secondo la Procura, il numero due del gruppo che riuniva i clan ribelli dietro al boss Pasquale Condello, detto «il Supremo».

Nel 2012 arrivarono gli arresti. Finirono in carcere Giovanni Fontana e i figli Antonino, Giuseppe Carmelo, Francesco e Giandomenico. In carcere finì anche Bruno De Caria, direttore della Leonia, accusato di aver favorito le operazioni di infiltrazione della ‘ndrangheta nella società che dirigeva. Le indagini erano state condotte dal Gico della guardia finanza di Reggio Calabria con ampio ricorso ad alcuni pentiti che ‘spiegarono’ come la Semac garantiva alla ‘ndrangheta un flusso di denaro continuo mediante l’acquisto sovrastimato di pezzi di ricambio dei mezzi utilizzati nel comparto rifiuti che, attraverso un sistema di fatture ingigantite, venivano sostituiti dalla stessa senza l’autorizzazione della Leonia, registrando così altissime uscite per l’azienda.

I soldi non andavano tutti ai Fontana: il controllo delle attività economiche legate al settore dello smaltimento dei rifiuti era infatti possibile, grazie all’assenso delle altre cosche che, regolarmente, avrebbero preteso la loro parte. Alla famiglia Fontana vennero sequestrate cinque imprese che operavano nei settori della riparazione e rivendita di autoveicoli, nel commercio al dettaglio di carburanti per autotrazione e nella compravendita di immobili. Inoltre il sequestro riguardò 11 fabbricati, 20 terreni, 43 automezzi e tre fabbricati per un valore complessivo stimato in circa 27 milioni di euro. Parlando del provvedimento di sequestro, Pignatone affermò che “tale provvedimento rappresenta l’epilogo dell’articolata e capillare attività investigativa che ha permesso di accertare un’ingiustificata discordanza tra il reddito dichiarato e il patrimonio a disposizione, direttamente o indirettamente, di Giovanni Fontana e dei suoi familiari”.

In primo e secondo grado le condanne furono pesanti. Giovanni Fontana fu condannato a 23 anni e sei mesi di reclusione; Antonino Fontana a 16 anni e sei mesi; Giuseppe Carmelo e Francesco Fontana a 12 anni e sei mesi; Giandomenico Fontana a 11 anni e sei mesi. Bruno De Caria fu condannato in appello a 10 anni e 10 mesi (rispetto ai 15 anni e 6 mesi del primo grado). L’inchiesta Leonia determinò il 10 ottobre 2012 lo scioglimento e il commissariamento del comune di Reggio Calabria. In concomitanza l’inchiesta con l’allora prefetto di Reggio Calabria chiese al ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri la nomina di una Commissione per far luce su quanto stava accadendo.

FINE PRIMA PARTE