Giovanni Mucci, giornalista toscano settantenne, è l’ultimo testimone interrogato dai pm fiorentini Luca Tescaroli e Luca Turco, che si affannano a cercare le prove con cui costruire addosso a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri il vestitino di “mandanti” delle bombe del 1993 e 1994. Ne dà notizia il Tirreno di Firenze, e la giornalista Ilenia Reali intervista il nuovo teste, che nei giorni della nascita di Forza Italia era a stretto contatto con il braccio destro di Berlusconi.

Su quello che i tartufoni di procura vogliono sapere, lui cade dalle nuvole, ricorda irridente che già dai magistrati di mezza Italia è stato inseguito e sentito (“Anche da Ingroia a Palermo, che non mi è proprio piaciuto”), ma lui non sa proprio niente di “trattative Stato-mafia”, né di strani incontri a Roma di Marcello Dell’Utri, “una delle persone più colte che io abbia mai incontrato”. Certo che l’ossessione per i “mandanti”, interrogativo costante ai tempi del terrorismo (chi c’era dietro le Brigate rosse?), si ripete e si moltiplica nella mente di investigatori e di giudici chiamati a far luce sulla stagione delle stragi mafiose. Che sono comunque terminate quasi trent’anni fa, è bene sempre ricordarlo. E di cui ormai si saprebbe tutto, se non ci fosse, appunto l’ossessione dei “mandanti”. Che devono essere per forza esponenti politici, cioè la categoria in cui si annidano i brutti sporchi e cattivi, peggiori degli stessi assassini.

Dovrebbe essere un capitolo chiuso per lo meno in Sicilia, dopo il fallimento del processo dei processi e una sentenza che sancisce l’inesistenza di un accordo degli anni novanta tra uomini dello Stato, politici come Calogero Mannino e investigatori come il generale Mori, e i corleonesi di Totò Riina. Ma si è risvegliata all’improvviso la Calabria, dove si è concluso un anno fa un processo molto particolare, chiamato “’Ndrangheta stragista”, che avrebbe visto complici in un attentato ai carabinieri, un boss mafioso di Brancaccio come Giuseppe Graviano e un referente della cosca Piromalli come Rocco Santo Filippone, entrambi condannati all’ergastolo. In quella sentenza di oltre mille pagine la giudice Ornella Pastore, prima di esser trasferita alla presidenza della prima sezione del tribunale di Messina, aveva lasciato come testamento le sue considerazioni politiche, che puntavano esplicitamente il dito contro Forza Italia, la cui nascita nel 1994 avrebbe coinciso con la scelta di referente delle mafie per porre argine alla sinistra. Con le bombe, dunque? Leggiamo quel che scriveva la presidente della Corte d’assise.

Dopo aver esplicitato che le condanne “costituiscono soltanto un primo approdo”, perché ci sarebbero “ulteriori soggetti coinvolti”, la sentenza precisa che si tratta di “soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato”. Ed ecco il colpo finale. ‘Ndrangheta e Cosa Nostra si sarebbero unite “alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neo partito Forza Italia di Silvio Berlusconi”. Fin qui potrebbero sembrare solo fantasie o speranze di ambienti criminali, anche se quest’unione improvvisa (e isolata nella storia del sud) tra la mafia siciliana e quella calabrese induce più di una perplessità. Ma poi il giudizio politico è tutto nella mente dei giudici. Che scrivono: “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile che dietro a tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali”.

Perché è rilevante questa sentenza, oltre che per l’ardita tesi politico-giudiziaria? Perché da lì è partito un fascicolo, che è planato sulla scrivania del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e da lì nelle mani dei pm fiorentini cui spetta la competenza su tutte le bombe del 1993 a 1994. In quell’aula calabrese si era affacciato anche il “pentito” doc Gaspare Spatuzza, che aveva ipotizzato un incontro a Roma in via Veneto al bar Doney tra Marcello Dell’Utri e Giuseppe Graviano. Quando? Ma mentre nasceva Forza Italia, naturalmente, cioè il 21 gennaio del 1994. E “guarda caso” proprio nei giorni delle bombe ai carabinieri e all’attentato fallito all’Olimpico. Insomma, l’ex braccio destro di Berlusconi, che all’epoca soggiornava al Majestic, cioè proprio di fronte al bar Doney, dove forse avrà preso qualche caffè, si è incontrato o no quel giorno con il boss del Brancaccio? Graviano, che pure spesso lancia messaggi ambigui, lo ha escluso. E non parliamo di Dell’Utri.

Ma potrebbero sapere qualcosa coloro che all’epoca, mentre si svolgevano le selezioni per le candidature del nuovo partito, erano al fianco del presidente di Publitalia. Ecco che prima viene sentito Ezio Cartotto, che, nonostante avesse il dente avvelenato per la mancata candidatura al Senato, ha sempre negato di aver mai visto Dell’Utri “al bar con due persone”, e in ogni caso non può essere più sentito perché è morto nel marzo 2021 di Covid. E poi Giovanni Mucci, “rincorso da accuse infondate perché Marcello mi stimava”. Ma ha senso tutto ciò? La débacle del “processo trattativa” e di tutte le indagini archiviate su “Berlusconi mafioso” non hanno ancora insegnato niente?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.