Il fatto, spietato e regressivo, che racconto ci induce a uscire dalla cronaca e a cercare di entrare in una storia. Il fatto è accaduto il 2 agosto, quando Sajad Sanjari, al sorgere del sole, è stato giustiziato in segreto nel carcere di Dizelabad nella provincia di Kermanshah in Iran. La famiglia è venuta a conoscenza dell’accaduto solo quando un funzionario ha chiesto di andare a prendere il corpo, mentre il giorno volgeva alla fine.

Sajad era stato arrestato nell’agosto del 2010, quando aveva 15 anni per aver accoltellato un uomo che aveva cercato di violentarlo. È stato condannato a morte un anno e mezzo dopo, nel gennaio 2012 quando ancora non aveva compiuto diciotto anni perché la Corte non ha creduto alle ragioni della legittima difesa avanzate dal ragazzo che aveva raccontato di essere stato minacciato già il giorno prima dall’uomo. Per questo aveva deciso di uscire da casa con un coltello. Voleva tenerlo alla larga. Per la Corte hanno contato di più le testimonianze delle persone per bene che dicevano che l’uomo fosse una persona a modo. La Corte Suprema aveva però rovesciato il verdetto di condanna nel dicembre del 2012 per una serie di lacune investigative, salvo riconfermarlo nel febbraio del 2014. Il tritacarne processuale riprendeva nel giugno del 2015.

Nel 2013 erano infatti state introdotte delle modifiche al codice penale islamico per riconoscere la discrezionalità del giudice nel comminare una punizione alternativa alla pena di morte nei confronti di minori di 18 anni qualora si fosse convinto che il minore non era in condizioni di comprendere la natura del crimine o le sue conseguenze oppure se avesse dubbi sul suo livello di “maturità” al momento del fatto. Anche questo nuovo corso processuale però era destinato a chiudersi malamente per Sajad. Il 21 novembre 2015 infatti, la corte penale di Kermanshah lo condannava a morte dopo averne attestato la “maturità” al momento del crimine. Come? Non attraverso l’acquisizione di un parere da parte dell’organizzazione di medicina legale, un istituto forense statale, né considerando il parere del consulente ufficiale del tribunale esperto di psicologia infantile per il quale Sajad Sanjari non era maturo all’epoca dei fatti.

No, nulla di tutto questo. La prova della “maturità” considerata è la stessa posta a base della prima condanna a morte, quella del 2012, e cioè “lo sviluppo dei peli pubici”. La qual cosa è andata bene anche per la Corte Suprema, né si è consentita un’ulteriore richiesta di riapertura del processo. Nel 2017 l’esecuzione di Sajad è stata bloccata per via di una mobilitazione internazionale sul caso. A distanza di quattro anni, la segretezza ha evitato ogni forma di mobilitazione a sostegno del ragazzo la cui esecuzione è stata resa nota alcuni giorni dopo da Amnesty International e confermata da Iran Human Rights. Questa la cronaca di un fatto accaduto in un Paese in cui il numero delle esecuzioni è, da inizio anno ad oggi, di ben 215 secondo i dati di Nessuno tocchi Caino e dove la pena di morte continua ad essere praticata nei confronti di minorenni in violazione delle basilari regole del diritto internazionale che la vietano in questi casi. Ben 4 quelli mandati al patibolo nel 2020 e almeno 84 quelli nel braccio della morte secondo l’Alto Commissario per i diritti mani delle Nazioni Unite.

Un Paese in cui il neo Presidente è Ebrhaim Raisi, considerato dagli stessi esponenti del regime, il “campione della forca” e che al momento della sua proclamazione aveva al suo fianco tanto un esponente dell’Unione europea, quanto del Governo italiano, cioè chi fa della moratoria delle esecuzioni capitali un fiore all’occhiello della propria politica estera. Di fronte allora a questa cronaca della banalità del male, proviamo a scrivere la storia. Come? Partiamo dalla consapevolezza di questa efferatezza e operiamo per un cambiamento evolutivo improntato al rispetto dei diritti umani e l’affermazione dello Stato di Diritto. Chiediamoci cosa intendiamo per “maturità”.

E poi vediamo se la lunghezza di un pelo è un criterio di valutazione ammissibile. Chiediamoci cosa intendiamo per “processo”. E poi vediamo se la lunghezza della sequenza di atti del procedimento è un criterio di effettivo avanzamento. Chiediamoci cosa intendiamo per “pena”. E poi vediamo se la privazione della vita o la lunghezza della privazione della libertà è un criterio di effettivo riequilibrio sociale e di giustizia. Allora quanto accaduto a Sajad Sanjari cessa di essere solo cronaca di un fatto accaduto in Iran, e diventa una storia che ci riguarda.