Di recente mi sono occupata del fenomeno della fuga dei nostri medici verso l’estero, un fenomeno che mette plasticamente in evidenza il divario che sotto alcuni aspetti esiste tra l’Italia e altri paesi europei. La nostra sanità, tuttavia, è interessata anche da un’altra forma di spostamenti, ancora più gravi e drammatici. Capaci, ancora una volta, di rappresentare un divario geografico, ma che in questo caso si verifica all’interno del territorio italiano, ovvero – come al solito – tra il nord e il sud. Mi riferisco al fenomeno della cosiddetta mobilità sanitaria interregionale, che sarebbe più opportuno definire come una vera e propria “migrazione”.

I numeri

Voglio usare questo termine non a caso, ma facendo riferimento alle caratteristiche più significanti di ogni migrazione, che sono sempre il disagio e l’inadeguatezza – per qualsiasi motivo – del luogo che si lascia, e la necessità indifferibile di quelle partenze che altro non sono, sempre e comunque, che “viaggi della speranza”. Veniamo subito ai numeri, perché è importante capire la mole del fenomeno per avvertirne la gravità. Stando al Rapporto sulla mobilità sanitaria interregionale realizzato da Agenas (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), nel 2023 i ricoveri fuori Regione sono stati ben più di mezzo milione. Un numero impressionante di cittadini che – muovendosi prevalentemente dal Meridione verso il Settentrione – ha dovuto affrontare, oltre la patologia che lo affliggeva, anche il disagio di un duro e oneroso spostamento verso strutture più attrezzate e in grado di affrontare il proprio problema di salute.

Le ragioni

Si farebbero conti sbagliati, però, includendo nella conta di questo disagio i soli malati: il fenomeno inevitabilmente impatta anche sulle loro famiglie, nella misura in cui altrettanti devono partire per accompagnare i propri cari in difficoltà, con tutto il carico di difficoltà logistiche, lavorative ed economiche che uno spostamento del genere – spesso non breve – può comportare. Si parte, ahimè, per tanti motivi diversi: per sottoporsi a interventi chirurgici avanzati o a esami diagnostici di elevata complessità, o per aggirare liste d’attesa senza fine. Ma dirlo così induce in un errore di percezione: si parte, in realtà, perché altrimenti si rischia la vita, dal momento che – in particolare nel Mezzogiorno d’Italia – l’offerta sanitaria si mostra troppo spesso gravemente inadeguata e insufficiente.

Un divario del genere rappresenta una vivida violazione del diritto costituzionalmente garantito alla salute, che si dovrebbe poter esigere con soddisfazione e tempestività in ogni Regione. Così purtroppo non è, e migliaia di cittadini sono costretti a chiudere valigie colme di analisi cliniche per cercare di raggiungere quelle cure che per certi italiani sono a disposizione nella propria città e Regione, mentre per altri – come fossero meno italiani degli altri – no. Chiaramente questo discorso non vale – o vale meno – per quelle cure ancora in fase di ricerca e di test che, per la loro stessa natura sperimentale, è normale non si possano garantire ovunque. Tuttavia, anche in questi casi, quei cittadini che si vedono costretti a “migrare” per accedervi dovrebbero poter ricevere un sostegno che invece non esiste, a parziale risarcimento del disagio che sono costretti a subire e che si aggiunge alle difficoltà causate dal loro cattivo stato di salute.

Il paradosso

Se non si trattasse di un tema drammatico, che riguarda la vita di tanti italiani che vengono colti dalla solitudine della malattia, ci sarebbe da sorridere. Pensando per esempio a quante parole si spendono a proposito dell’integrazione dei migranti che raggiungono l’Italia arrivando da paesi lontani. Cosa possiamo insegnare, e a chi, se ancora non siamo riusciti a garantire equità ed eguaglianza tra gli italiani?