Scuola Mobile
Dare consenso a ciò che non si conosce
Smartphone a scuola, arriva la mannaia dall’alto: se si vieta ciò che non si riesce a governare

Il problema, come spesso accade, sono le cose che arrivano dall’alto. È il caso della circolare ministeriale dell’11 luglio, con cui il Ministro Giuseppe Valditara vieta l’uso degli smartphone in classe, anche per scopi didattici, fino alla secondaria di primo grado. Il divieto, nel documento ministeriale, è associato a un Rapporto Unesco sull’Educazione del 2023, in cui si evidenzia il legame negativo tra l’uso eccessivo delle tecnologie digitali e il rendimento degli studenti.
Dare consenso a ciò che non si conosce
Un’azione doverosa e terapeutica, verrebbe da dire. Dal facile e prevedibile consenso, anche. Nel plauso generalizzato, soprattutto da parte dei genitori, si rischia però di non cogliere le ragioni di quelle scuole e quei docenti, minoritari per la verità, che si erano portati avanti: avevano attivato infrastrutture di protezione sulle applicazioni non didattiche, avevano avviato pratiche didattiche e valutative efficaci, con un più agile e continuo monitoraggio degli apprendimenti. A loro si chiede di tornare indietro perché altri non sono ancora andati avanti.
Associando il telefonino a videogiochi e social, gran parte dell’opinione pubblica rischia inoltre di dare consenso a ciò che non conosce.
“Vietiamo ciò che non riusciamo a governare”
Uso didattico dello smartphone, cosa significa? La verità è che molti non lo sanno. Non vedono l’utilità di poter guardare un video di approfondimento con un QR Code associato al libro o ascoltare la pronuncia audio del brano trattato in lingua straniera. Pratiche potenzialmente utili per la qualità dell’apprendimento, che ora saranno scoraggiate anche di pomeriggio, perché gli insegnanti si guarderanno bene dal mostrarne l’utilità. “Vietiamo ciò che non riusciamo a governare” spiega Salvatore Giuliano, dirigente del Maiorana di Brindisi, già sottosegretario in quota M5S ai tempi del governo gialloverde. “In questo modo rischiamo di buttare via il bambino con l’acqua sporca, dimenticandoci anche della spesa pubblica investita sul digitale, che ora si rischia di vanificare”.
I divari
E a proposito di spesa, sembra ieri quando, nell’Azione 6 del Piano Nazionale Scuola Digitale (Buona Scuola, 2015), si inneggiava al BYOD (BRING YOUR OWN DEVICE). “La scuola digitale – si leggeva nel documento ministeriale – deve aprirsi a politiche di utilizzo di dispositivi elettronici personali durante le attività didattiche”. Sì, si parlava proprio di “dispositivi personali”.
Non è una lotta al digitale tout court, si dirà, ma solo allo smartphone. E infatti è vero che il recente divieto ministeriale si limita agli smartphone e non si estende a tablet e pc, ma chi vive la scuola sa bene cosa accade in concreto: pochi istituti garantiscono il tablet agli studenti, e togliendo lo smartphone, ben più diffuso, si rischia di accrescere i divari. E poi ci sono i dati: Matteo Boero, Amministratore Delegato di Maieutical Labs, ha illustrato su La Stampa (dati tracciati da Google Analytics) che sulle piattaforme didattiche del suo gruppo si accede per il 60% da smartphone e solo per il 3% da tablet.
Arriva la mannaia
Sia chiaro, non è di aiuto neppure il pregiudizio opposto. Ci sono casi virtuosi di scuole che hanno già vietato lo smartphone, persino alle superiori, come quello pionieristico del Liceo Malpighi di Bologna. Marco Ferrari, preside della scuola, ne ha scritto nel bel libro a quattro mani con lo psicanalista Andrea Panico (“Bocche di Leone”, Mimesis, 2024).
“La strada che abbiamo intrapreso non è meramente quella di togliere qualcosa come punizione, bensì di un distacco forzato da una potenza distraente, per regalare agli studenti una qualità di vita scolastica inedita, centrata sul vissuto presente, interamente umana, cioè piena di relazioni”. Anche in questi casi, però, non manca il buonsenso di un possibile utilizzo didattico. “Il cellulare resta in classe in un cassetto chiuso a chiave; se il docente, per qualsiasi motivo didattico, decide di farlo usare, allora si può riprendere e lavorare.” Il buonsenso, appunto. Aprire le porte a soluzioni simili, scelte e valutate in fieri dalle singole scuole? No! Arriva la mannaia, sempre dall’alto, in quella che dovrebbe essere la scuola dell’autonomia.
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