Nicolás Maduro avrebbe finanziato nel 2010 i Cinque stelle. Lo scrive il quotidiano spagnolo Abc, foglio conservatore tradizionalmente filomonarchico, citando un documento che verrebbe dagli archivi dei servizi segreti venezuelani. Del documento Abc pubblica una foto di cui andrà verificata l’origine. Maduro, allora ministro degli Esteri del governo di Hugo Chávez, avrebbe spedito una valigetta con 3 milioni e mezzo di euro al consolato venezuelano a Milano destinati a Gianroberto Casaleggio per finanziare il movimento di Grillo, fondato nel 2009. I Cinque stelle e il figlio di Casaleggio smentiscono. Il giornale conferma tutto. «Non siamo dei pazzi, facciamo le nostre verifiche. Non pubblichiamo le prime informazioni che ci capitano in mano» dice il vicedirettore Luis Ventoso.

Della spedizione della valigia non ci sono al momento altri riscontri. C’è soltanto la denuncia del quotidiano che spesso dispone d’informazioni di prima mano sulle questioni riguardanti l’ala militare del regime Maduro. Abc è il punto di riferimento degli antichavisti di destra emigrati in Spagna, con ottimi contatti nella ex élite militare venezuelana degli anni Ottanta e Novanta riciclatasi in parte nel regime.
Di quei generaloni di epoca prechavista, accomodatisi poi nella dirigenza della rivoluzione proclamata da Chàvez arrivato al potere tramite elezioni nel ‘98, alcuni sono furiosi con Maduro che, succeduto al presidente nel 2013 e ostaggio da subito di una parte della dirigenza militare, non rifocilla di petrodollari alla stessa maniera tutti quanti. Molti degli esclusi, soprattutto nei servizi e nell’aeronautica, rimangono al loro posto, tramano a tempo pieno e, a volte, riescono a consumare personali vendette. Abc scrive che il console venezuelano a Milano, Gian Carlo di Martino, avrebbe fatto da intermediario per la transazione finale a Gianroberto Casaleggio.

Il documento definisce Casaleggio “promotore di un movimento di sinistra rivoluzionario e anticapitalista nella Repubblica italiana”. I 3 milioni e mezzo – aggiunge il quotidiano citando il documento dell’intelligence, allora guidata da Hugo Carvajal – furono inviati “in modo sicuro e segreto attraverso valigia diplomatica”. La valigetta sarebbe stata trovata da un ignaro addetto militare che ne aveva informato Carvajal. Quest’ultimo gli averebbe impartito l’ordine di lasciar stare attraverso un dispaccio: “Sono state impartite istruzioni verbali al nostro funzionario in Italia per non continuare a riferire sulla questione, che potrebbe diventare un problema diplomatico”. Carvajal, scappato in Spagna, è latitante dal novembre scorso dopo l’approvazione della sua estradizione negli Stati Uniti, dove è accusato di narcotraffico e vendita di armi alle Farc colombiane, la più vecchia e ormai disciolta (tranne un gruppetto di dissidenti) guerriglia latinoamericana. La somma spedita a Milano sarebbe stata prelevata da fondi riservati amministrati dall’allora ministro dell’Interno Tareck el Aissami, tuttora uomo di fiducia di Nicolas Maduro. Fin qui la ricostruzione di Abc.

Ora: di rapporti stabili tra Caracas e il Movimento 5stelle, a parte sporadici contatti e millantate relazioni individuali, non si ha notizia certa. Quel che è sicuro è che da parte della presidenza della Repubblica venezuelana esiste dal 2002 un grande interesse a tutto ciò che in Europa, vecchio partito o movimento nascente che sia, possa essere coltivato come sponda amica. Finché era vivo Hugo Chávez questo delicato lavoro di ricerca di potenziali alleati europei da annaffiare poi, una volta accertatane l’affidabilità, con la riserva infinita di quattrini in arrivo da Pdvsa (l’industria pubblica del greggio venezuelano) era affidato a un apposito ufficio con quattro trentenni poliglotti cresciuti all’estero che Chávez, per evitare interferenze, aveva installato a palazzo Miraflores a due metri dalla sua porta. Da lì, per esempio, Chávez curò i legami con la sinistra francese, in parte con quella italiana, con quella londinese e, più tardi, con il movimento spagnolo Podemos prima che diventasse forza di governo.

I legami con i primi spagnoli dell’allora nascente Podemos arrivati a Caracas, ad esempio, furono stabiliti in fugaci contatti e poi messi alla prova durante gli anni della costruzione di una diplomazia continentale alternativa a quella tradizionale che garantisse alleati fedeli a Hugo Chávez. Due spagnoli che si presentavano come «los amigos de Podemos» furono spediti da Chávez nella primavera del 2006 a fare da angeli custodi a Ollanta Humala – poi diventato presidente del Perù – mentre era in corsa per l’elezione. Si tratta di Roberto Viciano e di Rubén Martínez, due scalcagnati professori di Valencia. Humala allora era l’outsider che faceva paura alla politica peruviana. Di outsider che partono in sordina e vincono le elezioni in volata è piena la storia del Perù. Chávez aveva visto bene. Humala all’inizio del 2006 era la grande incognita a Lima. Da destra lo accusavano di essere un pericoloso sovversivo. Da sinistra lo temevano come convinto militarista. Lui diceva di avere solo due miti: il generale Charles de Gaulle e Napoleone.

Al leader venezuelano piaceva moltissimo, lo chiamava «la promessa del nazionalismo andino». Figlio di militari, ex colonnello dell’esercito peruviano, implicato nel 2000 nel tentativo di insurrezione di giovani ufficiali contro l’allora presidente Alberto Fujimori, Humala era stato liberato subito dopo la fuga di Fujimori in Giappone, reintegrato nell’esercito e spedito come addetto militare prima in Francia e poi in Corea del Sud. Tornato in Perù, aveva fondato dal nulla il Partito nazionalista peruviano, per candidarsi alle elezioni presidenziali del aprile 2006. Era molto seguito da Caracas, che lo stava studiando ben bene.

I due spagnoli, Viciano e Martínez, erano parte integrante della delegazione diplomatica venezuelana in tournée continentale. Venivano presentati a Lima dagli inviati venezuelani come «i due che curano Ollanta per conto di Chávez». Loro, allargandosi parecchio, dicevano d’essere due stretti consiglieri del presidente venezuelano per la politica europea. In realtà erano due professori malmessi dell’Università di Valencia che a Caracas avevano trovato l’America. Due innamorati delle cause radicali, il genere tipico e un po’ triste del so-tutto-io europeo che s’appassiona con ideologico fervore alle rivoluzioni a casa d’altri. Dall’Avana, dopo il 1959, di tipi antropologici simili, se ne perde il conto. Qualche illuso, numerosi sfaccendati, parecchi scrocconi. Negli anni Novanta ne era pieno anche il Chiapas del “Subcomandante Marcos”, che a differenza della Caracas chavista, però, non era gonfio di petrodollari. Nel caso dei due valenziani si trattava di due funzionari informali del chavismo. Andavano in missione ovunque. Marcavano tanto stretto Ollanta, da occuparsene anche quando lui andava dal presidente boliviano Evo Morales a la Paz.

Roberto Viciano compare a sorpresa come presidente di una fondazione culturale dalla storia curiosa, il Centro di studi politici e sociali, il Ceps. Il luogo di costituzione è sempre Valencia. Lo mettono su Viciano, Martinez e altri amici loro del giro chavista spagnolo.
Secondo quanto risulta al giornale venezuelano El Nacional, vecchio giornale borghese che ha resistito a lungo – finché ha potuto – all’invasività del regime, fu il Ceps a fare da tramite tra i Venezuela e la Spagna per far piovere su Podemos milioni di petrodollari chavisti. Podemos ha sempre negato che ci siano stati vincoli tra il Ceps e il movimento politico di Iglesias e compagni. Al Nacional risulta invece che da quando, il 26 novembre del 2002, il Ceps aprì un ufficio a Caracas e autorizzò una cittadina spagnola a rappresentarlo di fronte alle istituzioni locali, si aprì un’autostrada per carichi di quattrini spostati a vario titolo dalle casse chaviste a quelle della fondazione. Nell’atto di nascita dell’istituto Ceps c’è scritto che l’obiettivo è «l’aiuto ai paesi in via di sviluppo, specialmente in America latina e in Africa». A seguire la rotta dei soldi denunciata più volte dal Nacional, invece, si direbbe che l’aiuto, copioso, è sempre arrivato in senso inverso. Meta finale, la Spagna.

Uno dei miracolati del Ceps pare essere proprio Pablo Iglesias di Podemos. Non si sa bene a quale titolo, lo chiamarono a Caracas per impartire corsi per funzionari del ministero degli interni e della giustizia già nel 2006. Cinque giorni di corso, dal 5 al 9 giugno di quattordici anni fa, per farcire i poveri quadri chavisti di letture su neoliberismo e critiche alla globalizzazione. Evidenza di legami innegabili tra Podemos e Ceps non c’è. Nemmeno è possibile inchiodare Viciano all’ammissione che fa parte del Ceps. Ci sono, quelle sì, curiose coincidenze. Per esempio c’è il premio Libertador al Pensiero critico, premio in denaro dato dal ministero della cultura venezuelano a insindacabile giudizio dei suoi esperti, che viene dato nel 2010 a Luis Alegre, ex membro del consiglio esecutivo di Podemos, poi passato ad altri incarichi organizzativi. Mai stata trovata nessuna pistola fumante, però.

Di certo c’è solo che tra il 2004 e il 2012 i soldi arrivati dalle casse pubbliche venezuelane alla Ceps, quelli arrivati direttamente, furono 3 milioni e duecentomila dollari, trasferiti in 52 operazioni diverse. Nel 2014, dopo la stretta ai cordoni della cassa chavista, resa necessaria dalla crisi di liquidità sofferta dal Venezuela – che è sì esportatore di greggio, ma ha già venduto (soprattutto ai cinesi) i profitti del suo export del prossimo futuro in cambio di una linea di credito – il Ceps ha continuato a ricevere soldi e risulta essere stata una delle tre fondazioni culturali alle quali il Cencoex, il temibilissimo ente autorizzato dallo Stato a distribuire dollari, ha accordato elargizioni di denaro. L’ultimo pagamento della Banca centrale venezuelana risalirebbe al Natale del 2014. 60.000 dollari. Questa notizia, non minuscola, saltò fuori per la prima volta dalle colonne del solito Abc che diede notizia di un contratto firmato tra il primo vicepresidente della Banca centrale venezuelana, Edomar Tovar, e il rappresentante legale della Fondazione Ceps, Sergio Pascal Peña.

Il numero dell’operazione è: 009-2014. Nella pagina due del contratto c’è scritto che la conversione dei bolívares, moneta nazionale venezuelana, doveva essere fatta al tasso preferenziale che si usava per l’importazione di alimenti e medicine. I servizi prestati dalla persona che risulta pagata in questo ultimo giro di soldi, Manuel Cerezal Callizo, sono di consulenza per l’analisi periodica della congiuntura economica nazionale ed internazionale. C’è un precedente, l’anno prima. Un contratto per una devoluzione di soldi della Banca centrale alla Ceps, sempre firmato da Edomar Tovar, per un ammontare di 20 mila euro.

Il giornale spagnolo, che si era scatenato nell’inchiesta sui supposti finanziamenti venezuelani a Podemos durante le ultime settimane di campagna per elezioni amministrative spagnole, sostenne allora di aver avuto accesso a due contratti sottoscritti da Tovar e da Pascal Peña, nel 2013 e nel 2014. I soldi sarebbero arrivati solo quella volta direttamente dalla Banca centrale. Fino a quel momento avrebbero fatto da tramite diverse istituzioni, comprese la Compagnia nazionale di telecomunicazioni e la Segreteria della presidenza della Repubblica.

Innegabile è l’incontro avvenuto nel 2015 a Ginevra tra Juan Carlos Monedero, allora numero tre di Podemos, e due chavisti, a ridosso di una conferenza sui diritti umani tenuta nella sede delle Nazioni unite. Qualche giorno dopo Podemos si rifiutò di appoggiare una risoluzione del Parlamento europeo di condanna alla detenzione di personaggi dell’opposizione venezuela. Podemos contestava la definizione di «arresto arbitrario», anche se i leader dell’opposizione finiti in carcere erano stati arrestati con ogni evidenza a causa dello svolgimento della loro attività politica. I cronisti locali del Nacional raccontano un episodio, accaduto a Caracas nel 2013, subito dopo la morte di Hugo Chávez. Seduti al ristorante “La Hostería”, nella zona dei palazzoni di cemento del Parque central, un gruppo di spagnoli stava parlando a voce alta di un documentario sulle conquiste sociali della rivoluzione chavista. L’atmosfera era tesa in quei giorni. Non si sapeva che direzione avrebbe preso il governo, né se avrebbe resistito. I chavisti dicevano di temere il colpo di stato. Gli antichavisti di temere un autogolpe. Il clima in giro era molto cupo.

Un tavolo di clienti caraqueñi ascolta la conversazione dei militanti europei e qualcuno alza la voce. «Venite a vivere un periodo qui nei quartieri, venite a vedete come vanno le cose da queste parti, no?» dice agli spagnoli. Segue breve discussione, abbastanza civile. Poi zitti tutti. Al Nacional giurano che tra gli spagnoli c’erano Pablo Iglesias e Juan Carlos Monedero. Dicono che i camerieri della “Hostería” confermano. Il documentario, propaganda pura, di cui stavano discutendo è quello su Chávez fatto da Iglesias per la televisione iraniana HispanTv, uscito nell’agosto del 2013, dove compare a più riprese Monedero, che è il principale intervistato. Come indipendente osservatore estero.