Ma perché il Pd insiste nel non accettare nessuna modifica al ddl Zan? La domanda se la pongono in molti, non sul piano dei princìpi bensì su quello della pragmatica concretezza. La legge è malscritta, allo stesso tempo troppo puntigliosa e troppo vaga, tale dunque da assegnare una immensa discrezionalità al giudice: molti parlamentari del Pd, lontano dalle luci della ribalta, sono perfettamente consapevoli del limite. Nessuno, inoltre, scommetterebbe sul semaforo verde della Corte costituzionale. Al contrario è opinione comune che la legge, e in particolare l’art.1, verrebbe bocciata dalla Consulta per i motivi illustrati da più voci, ultime quella del costituzionalista Michele Ainis e del giurista, peraltro del Pd, Giovanni Fiandaca. Non che la sua sia una posizione isolata.

Diverse figure anche di notevole peso nel Pd hanno spiegato a Letta che così com’è il ddl Zan è a fortissimo rischio di bocciatura. Ma il problema principale è forse un altro: senza un accordo, impensabile se non si accettano delle modifiche, l’eventualità che alcuni emendamenti vengano approvati dall’aula di palazzo Madama a voto segreto è quasi una certezza. A quel punto la legge dovrebbe tornare alla Camera dove, sempre in assenza di un accordo preventivo, finirebbe nella palude. Dunque è inevitabile chiedersi perché il Pd insiste nel ritenere intoccabile una legge che, nella sua versione attuale, sarà quasi certamente affossata o paralizzata e che, se anche uscisse indenne dal Parlamento, verrebbe poi bersagliata dalla Corte costituzionale?

La risposta sta probabilmente in una sorta di sondaggio interno organizzato dal Nazareno per verificare quale vessillo sia più vicino al cuore della sua base elettorale, se l’immigrazione o i diritti lgbt. Hanno prevalso questi ultimi e intorno a questo tema, dunque prima di tutto intorno al ddl Zan e alla sua immodificabilità, Letta intende strutturare una strategia che è tanto propagandistica quanto politica nel senso pieno del termine. L’affossamento o il blocco del ddl Zan sono messi in conto sin dall’inizio. A quel punto però sarà possibile montare una campagna in grande stile, una narrazione nella quale la maggioranza civile e aperta ai diritti di un Paese moderno è tenuta a freno e spinta indietro da una minoranza oscurantista nella quale tra le posizioni della Lega e quelle di FdI ogni distinzione scompare. Argomento eccellente e proficuo in vista delle importantissime elezioni amministrative d’autunno.
Sin qui la mera propaganda.

Il calcolo è però più ambizioso e più direttamente politico. Letta, come del resto Di Maio, è convinto che sia fondamentale spingere Salvini fuori dalla maggioranza oppure, se l’obiettivo di massima si rivelasse al momento impraticabile, almeno ai suoi margini. La battaglia un po’ ridicola sulle riaperture è servita anche a questo, e Salvini, per motivi speculari, ha fatto in pieno la sua parte nella messa in scena. Ma i soli temi sui quali la contrapposizione può diventare tanto frontale da permettere la messa ai margini della Lega nella maggioranza sono appunto l’immigrazione e i diritti lgbt. La sensibilità della base ha sconsigliato di puntare sull’immigrazione.

Tanto Letta quanto tra i 5S Di Maio preferirebbero di gran lunga mettere la Lega in condizione di dover uscire dalla maggioranza prima dell’elezione del prossimo capo dello Stato. Si tratta però di un obiettivo quasi proibitivo e il segretario del Pd se ne rende conto, pur non avendo ancora perso ogni speranza in questo senso. Ma se Mattarella non tornerà indietro sulla indisponibilità a una rielezione, proprio la probabile battaglia all’ultimo sangue per l’elezione del nuovo presidente potrebbe essere l’occasione adatta a completare l’opera, a patto che la frattura si sia già in buona misura determinata e Salvini si trovi già sul confine della maggioranza.

La precondizione per giocare la partita che il segretario del Pd ha in mente è però silenziare, o comunque rendere invisibili, le critiche alla legge non tacciabili di furia omotransfobica. Come quelle tecniche dei giuristi e dei costituzionalisti che indicano i limiti formali della legge in termini sia di efficienza concreta che di costituzionalità. In campo devono rimanere due sole posizioni: quella dei sostenitori della legge e quella di Pillon.