Aboubakar Soumahoro con le vicende relative alla cooperativa Karibù non c’entra nulla. Questo dice la procura di Latina nelle conclusioni delle indagini. Nulla. Ma non solo questo. Alla compagna Liliane Murekatete l’unica condotta contestata è quella di aver provocato un danno erariale di 13.368 euro, di cui 4.456 a suo carico, conseguente alla violazione dell’obbligo di controllo della dichiarazione dei redditi presentata nel 2020. Insomma poca, pochissima roba. Falsa la notizia che gli sarebbero stati sequestrati conti correnti e centinaia di migliaia di euro. Nessun riferimento da parte della procura all’acquisto di articoli di moda.

Dunque dovremmo aspettarci, in queste ore, un ritorno di fiamma nei talk e nelle redazioni, una volontà di rettifica, un cambio di registro, non dico le scuse, una riflessione più attenta sulla potenza devastatrice dei processi sommari a mezzo stampa. Diciamo un certo grado di cosciente ripensamento da parte di chi si è adoperato, a testa bassa, per rovinargli la carriera e in fondo la vita. La reputazione, per chi svolge funzioni pubbliche, è il bene più prezioso. Per imbrattarla ci vuole pochissimo. La responsabilità deontologica di chi fa informazione dovrebbe collocare la visibilità del risarcimento al medesimo grado in cui è andata in scena la gogna, il rogo liberatorio contro il capro espiatorio. Sì, perché Soumahoro è il capro espiatorio perfetto. Per un eventuale danno erariale di poco più di 4mila euro della compagna è stata pubblicamente lapidata una coppia, macchiata una storia di riscatto, infangata una carriera sindacale e politica, pubblicate foto personali intime, costruiti castelli di allusioni e calunnie. Temo peraltro che il danno sia talmente incardinato nel profondo della coscienza nazionale da risultare inemendabile.

A fronte delle parole della procura tra le redazioni vige la cautela, quella mancata nel momento di appiccare il fuoco, il silenzio, o qualche pallone tirato in tribuna. Come nel caso della famosa testata progressista ora impegnata ad indagare le scale antincendio della cooperativa. Tanto per continuare a parlare del caso Soumahoro, caso che appunto non esiste. «Come ribadito sin dall’inizio, io con le indagini, concluse dalla Procura di Latina non c’entravo e non c’entro nulla. Non risulto né coinvolto né indagato. A questo riguardo, parlare di “caso Soumahoro” vuol dire negare l’evidenza della magistratura con il chiaro intento di diffamare». Questo dichiara l’onorevole alle agenzie. Senza ricevere la necessaria attenzione. Questa la verità giudiziaria, una e incontrovertibile. Forse molti politici, giornalisti, moltissimi odiatori social dovrebbero semplicemente chiedere scusa.

Ma perché si è prodotta questa montagna di fango, fake e ossessioni pruriginose sulla vita pubblica e privata di un parlamentare? La domanda la rivolgo prevalentemente al campo in cui milito, quello della sinistra. Anche perché, spesso, il garantismo della destra appare peloso e orientato esclusivamente a casi specifici, quelli in cui i guai entrano in casa, dunque non del tutto attendibile. E su Soumahoro, che non è cosa loro, non hanno fatto eccezione. Violenti tra i violenti. Sulla sinistra invece va fatta una riflessione di fondo sul giustizialismo come cattiva coscienza che rischia di stritolare la sua anima. Lo abbiamo visto in questa vicenda, lo abbiamo osservato sul cosiddetto Qatargate e la indegna carcerazione di Eva Kaili, lo abbiamo visto ancora sul caso Cospito e l’incredibile silenzio sulla palese violazione dello Stato di diritto. Per rimanere all’attualità e non allungare lo sguardo sulla tentazione giudiziaria di risolvere la contesa storica con Berlusconi in un’aula di tribunale piuttosto che sul terreno politico e culturale.

E cosa tiene insieme destra e sinistra in questa brutta storia? Cosa impedisce ai conduttori televisivi di destra e sinistra e alle grandi firme che fanno opinione di considerare la vicenda Soumahoro a partire dalla verità giudiziaria? Il pregiudizio sul personaggio (della persona non gli importa granché) e il giudizio sulle maldestre comparsate tv, di cui peraltro hanno goduto in termini di audience e pubblicità, fatte di “radicalità posturale” e “diritto all’eleganza”. E può bastare il fastidio borghese per questo profeta un po’ contraddittorio, talvolta confuso, a promuovere questa gigantesca rimozione: la consegna, considerata tradita, ricevuta dai salotti progressisti di comportarsi bene, da santo laico, con la promessa di essere portato in processione a favore di telecamera?

A un personaggio del genere si richiede una coerenza che nessuno chiede a se stesso. I suoi stivali devono essere al medesimo tempo “sporchi” e “puliti”, sporchi per le campagne pubbliche, puliti perché non devono macchiare i salotti che contano. Pena il fuggi fuggi. C’è anche dell’altro. C’è il razzismo strisciante, c’è il rancore che colpisce uno che sembra avercela fatta, c’è la peggiore ferocia, quella che la plebe aizzata rivolge verso i propri figli migliori. La verità è che ci sono troppe coscienze sudicie in giro e tutte concorrono ad un obiettivo: l’oblio di Abou. Per questo abbiamo l’obbligo di batterci, per Abou e per impedire ai farisei di farla franca ancora una volta.