Io capisco che questa osservazione possa provocare dispetto, ma se un esercito di giornalisti si mette a difesa dei diritti dei migranti a far tempo dal 25 Settembre del 2022, e ci si mette esercitandosi nell’investigazione della marca delle mutande della trisnonna di Aboubakar Soumahoro e nello scrutinio morale del guardaroba della moglie, allora osservo che c’è qualcosa che non fila per il verso giusto. O, per meglio dire, osservo che tutto fila per il solito verso sbagliato che fa emettere al ministro delle Ruspe, Matteo Salvini, la sua requisitoria contro la “zingaraccia”.

Il solito verso sbagliato che fa dire a un noto oligarca democratico, non casualmente ammiratissimo a destra, che “tra Covid e immigrazione c’è una correlazione evidente”, che è il modo progressista per dire che i negri portano le malattie, con il rincalzo del punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti, l’avvocato Conte, secondo il quale “non possiamo tollerare che arrivano dei migranti addirittura positivi e vadino in giro liberamente”. Dove lo sfregio non sta nella macellazione dell’italiano, ma nella riproposizione del modulo discriminatorio che porta a rastrellare gli infetti su base etnica.

Che il caso Soumahoro esploda in questo Paese, cioè il Paese che fu alleato di quelli che assassinavano a centinaia di migliaia gli “zingaracci” su cui fa comizio un ministro della Repubblica, e dove i neri stanno in cosiddetti centri di accoglienza concepiti come strutture detentive forse non per colpa esclusiva della suocera di Soumahoro, oppure a raccogliere ortaggi nelle piantagioni schiaviste forse non per responsabilità concentrata nella cerchia familiare dell’ex bracciante che si è permesso di diventare deputato, e ora è convenuto a “chiedere scusa” a reti unificate, a me pare non proprio tranquillizzante e non proprio il segno dell’equanimità simulata dal giornalismo che, figurarsi, indaga perché ci sono le notizie, non certo perché c’è un nero da bastonare.

Così come è equanime e solo rivolto alla giustizia, solo rivolto a soddisfare la giusta esigenza di informazione dei cittadini, darsi alla militanza social o al titolone sullo stupro sottolineando che il criminale è magrebino, è immigrato, è clandestino, cosa che notoriamente si ripete per ogni stupro con analoga titolazione se lo stupratore è biellese o di Comacchio. Ed è normale, in questo Paese, normalissimo, che su un illustre quotidiano si racconti degli “africani senza biglietto”, com’è normale che se lo fai notare, come ho fatto l’altro giorno durante una trasmissione televisiva, una deputata pensi bene di spiegare che certo, perché quelli, i neri, non pagano il biglietto, mentre i bianchi sì. Ed ero io ad aver detto l’enormità, e cioè che in un Paese civile non ci si lascia andare a certi spropositi: io, mica quella parlamentare che ha ripetuto con un’esattezza stupefacente la fine teoria secondo cui non è che noi siamo razzisti, sono loro che sono negri.

Non so se sia il caso di compiacersi o dolersi del fatto che alcuni abbiano ritenuto di condividere e manifestare l’impressione che le cose stiano in questo modo, e cioè che quel che è successo a Soumahoro ha molto poco a che fare con la ricerca della verità e con le purezze della missione informativa, e piuttosto denuncia la solita voglia di forca ma arricchita di un evidentissimo pregiudizio razziale e classista. A parte questo giornale, il cui spazio mi capita di usurpare nel capitale difetto del titolo di giornalista, c’è stato Paolo Mieli, che ha avuto la cortesia di riconoscere alla nostra denuncia qualche indizio di fondatezza, e poi Vittorio Feltri, forse non casualmente sprovveduto del tesserino dell’Ordine fascista dei giornalisti.

È tanto, e vale il compiacimento, perché significa che non proprio tutti i plenipotenziari dell’informazione sono rimasti inerti davanti al linciaggio. Ma è poco, e vale la doglianza, perché quelle voci contrarie non sarebbero necessarie in un Paese che va per il verso giusto, quello che lo mantiene a un livello decente di civiltà.