Il giornalismo pressoché unanime che non demorde e anzi insiste, anzi rivendica la doverosità della propria missione informativa, anzi mena vanto della propria oggettività investigativa, e indispettito tratta da fessi i pochi, pochissimi che hanno preso le difese di Aboubakar Soumahoro, quel giornalismo alla ricerca postuma delle prove che giustificherebbero il previo linciaggio, può rigirarla come vuole questa frittata: ma resta preparata con l’ingrediente razzista che qui abbiamo denunciato, ed era questo a renderla tanto appetibile per il pubblico in frenesia alimentare cui era offerta.

Le indagini, le vociferazioni, i testimoni d’accusa, le requisitorie a petto in fuori contro il migrante arricchito che fa carne di porco dei principi che agitava per chiedere soldi e voti, i capi d’imputazione moraleggiante venuti su come fungaie intorno all’impalcatura dell’accusa che – per carità – non ha nulla a che fare con il colore della pelle, e semmai in modo ineccepibilmente equanime chiede conto di vicende che avrebbe identicamente rinfacciato a qualsiasi persona bianca e dabbene, non destituiscono ma confermano la matrice discriminatoria e razzista (sì, lo ripetiamo: razzista) di quell’accanimento. Questo parlamentare con la colpa di un eloquio migliore rispetto a quello di chi lo giudica, questo “ivoriano talentuoso”, come l’ha chiamato un noto giornalista di certificata appartenenza di sinistra, ciò che a dire di certuni garantirebbe l’impeccabilità civile dell’investigazione, questo finto paladino dei derelitti che in realtà fa maltrattare dalla moglie, una riccastra griffata che egli non ripudia pubblicamente, diventa nel giro di ventiquattro ore il simbolo della crudeltà contro i migranti e i lavoratori, due categorie notoriamente care al cuore e alle attenzioni di quelli che gli rinfacciano le lacrime finte su Instagram, il social dove lui frigna e la consorte posta fotografie da triangolo della moda.

E questo del pianto, e della motivazione teatrale che l’avrebbe inscenato, è un profilo tutt’altro che trascurabile della vicenda. Perché quell’uomo appartiene a un rango che fino a pochissimo tempo fa era schiavo, e che ancora oggi, e anche qui da noi (o vogliamo negarlo?), è oggetto di sopraffazione, di violenza, di razzismo, appunto. E tutti dovrebbero intenerirsi, non incattivirsi, vedendo un nero che piange e dice “Che cosa vi ho fatto?”. E nessuno dovrebbe ricorrere all’argomento falso e fuorviante secondo cui bisogna guardare solo ai comportamenti, ciò per cui va trattato “come chiunque altro, bianco giallo o nero” (questa è la solita giustificazione del razzista). Perché un nero, ancora oggi e anche qui da noi, non è affatto “come chiunque altro”: un nero, ancora oggi e anche qui da noi, è per molti un “negro”. E non mi si dica che ci sono anche quelli che lo hanno massacrato, sì, ma per ragioni che non c’entrano nulla col razzismo. Perché questo importa molto poco. Quel che importa è che altri (tanti) lo hanno invece massacrato proprio per quel motivo. E senza che i primi, gli equanimi, abbiano mostrato di farsene un problema.

Ma se sei in un collegio giudicante che vuole sbattere in galera l’imputato perché è uno sporco negro, tu non è che ti assolvi argomentando che però in effetti quello ha commesso l’illecito e che tu solo per questo, per l’illecito, non per il colore della pelle, vuoi condannarlo. Se dalla piazza monta la voglia di forca per il negro, tu hai il dovere di occuparti di quella, non della moglie che però a ben guardare qualche mastruzzo l’ha fatto. Ma per chiudere, tornando al merito: io non ho mai sentito parlar tanto di migranti maltrattati e lavoratori sfruttati, mai ho letto tanto di ingiustizia e soperchierie ai danni degli emarginati, mai ho visto un giornalismo così solerte nel raccogliere le prove di tanto degrado, di tanta umiliazione, di tanta disumanità in pregiudizio dei diseredati, come da quando l’Italia cristiana e democratica ha trovato nella vita e nella famiglia di un uomo nero la causa di tutto quell’abominio.