C’è un solo motivo per cui a destra e a manca si son rivoltati come vipere calpestate quando qualcuno ha denunciato che era la componente classista e razzista – e questa più che quella – a mobilitare la piazza del linciaggio contro Aboubakar Soumahoro. E il motivo è molto semplicemente questo: perché era così; perché era vero. E perché la vicenda scopriva un disturbo della nostra società, del nostro giornalismo, della nostra giustizia, e insomma del nostro generale tenore civile, ben più profondo rispetto a quello esploso intorno al caso del “talentuoso ivoriano”, per usare una delle definizioni dell’editorialismo inquirente che ha guidato la campagna.

Se non fosse stato così, se non fosse stato vero, se non fosse stata quella componente a motivare in modo magari subdolo ma effettivo quell’aggressione, e se la cosa non avesse implicazioni ben più vaste e significative, il fronte razzial-giustizialista avrebbe trattato quella denuncia come si fa con una gratuita boutade, e soprattutto non avrebbe fatto ricorso al più classico degli espedienti difensivi in argomento: vale a dire la raccolta delle prove a sostegno della pretesa equanimità e neutralità delle requisitorie contro il balordo che cianciava di diritti dei deboli mentre il suo clan familiare affamava i migranti e i lavoratori e ci faceva pure i soldi. Quali prove? Voilà: il fatto che ad accusarlo fossero anche – anzi soprattutto! – persone con il suo stesso tono di epidermide. I braccianti neri che lui stesso avrebbe dovuto rappresentare e difendere.

I migranti di cui avrebbe dovuto occuparsi. Infine (questa è l’ultima puntata) la giornalista nera – quella sì una brava persona, perché non si infila populistici stivali fangosi e non ha parenti con le borse di lusso – che ha fatto un’onorata carriera in Rai dopo un’infanzia migrante di lavori umili: e che ora – lo vedi, tu che blateri di razzismo? – rimprovera a Soumahoro di aver tradito la causa e di aver semmai pregiudicato, altro che difeso, le ragioni degli ultimi della società. Un armamentario probatorio e di giustificazione che assomiglia come una goccia d’acqua a quello dell’antisemita che non è tale perché ha tanti amici ebrei, o chiama al convegno neonazista l’ebreo che sottoscrive il manifesto contro la multinazionale giudaica. O, per star più vicini, è la stessa riprova di non razzismo offerta dal partito politico il cui senatore dà di “orango” a una ministra di colore, il cui capo annuncia le ruspe contro la “zingaraccia”, il cui candidato alla presidenza della regione vagheggia di difesa della “razza bianca”: ma senza nessun razzismo, appunto, com’è comprovato dal fatto che hanno candidato e portato in parlamento un nero.

Solo che dare di razzista a certa destra in questo Paese ancora si può, anzi è quasi facile, mentre se quel pregiudizio lambisce gli intendimenti e produce gli automatismi di un milieu non etichettabile, e investe la natura intima di un atteggiamento diffuso, allora non si può più. Perché il razzismo in Italia non c’è, salvo quello protocollare a braccio teso o a rosario agitato. Perché dare addosso a reti e a giornali unificati a un parlamentare che non ha ripudiato la moglie griffata, e non vive in una baracca ma si è pure preso l’appartamento, e non rinuncia allo stipendio pur avendo una suocera trafficona, è quel che ordinariamente si fa con qualsiasi politico accusato di incoerenza. E lo confermano anche tanti neri perbene, signori miei.